Cultura e tradizione

L’UÓCCHJI DI LU DIÀVULU
(L’OCCHIO DEL DIAVOLO)

IL SABBA A MONTECALVO IRPINO – Il diavolo gabbato da un pastore astuto.

Angelo Siciliano

[Ed. 12/06/2016] Ho scritto diversi testi sulle janare, tra cui due poemi inediti, ma questo cunto, noto ad alcuni anziani del paese con diverse varianti, l’ho raccolto a Montecalvo Irpino. Dopo aver ascoltato il fatto, l’ho reinventato di sana pianta, come testo in prosa ritmica in vernacolo irpino dell’Ottocento, rispettandone lo spirito arcaico.
Il pantano d’acqua rossa è un deposito naturale di acqua ferruginosa, che proviene da una falda sotterranea molto ricca di ferro. Ossidandosi a contatto con l’aria, essa assume un colore rosso vermiglio. Sono due i canali in cui la falda scarica questo tipo di acqua, non molto distanti tra loro, in contrada Conca. Quello citato nel testo fa defluire l’acqua in eccesso della Fontana della Monaca e attraversa la terra di proprietà della famiglia Scoppettone, il cui soprannome è Milachjancóne, derivante dal nome e cognome di una contadina montecalvese dell’Ottocento, Camilla Chiancone. In esso scopersi l’acqua rossa, raccoltasi in un piccolo pantano, all’inizio degli anni Sessanta del Novecento che ero ragazzo. Prelevai e utilizzai parte di quel colore naturale, per abbozzare delle figure sui tronchi di alcuni grossi alberi della zona. Mi andò bene. Né il diavolo né le janare vennero a tormentarmi di notte. L’altro canale, in cui l’acqua è rossa, è stato scoperto recentemente da Gaetano Caccese e attraversa un’area con dei pioppi intricata di rovi, ma non vi sono noci, notoriamente alberi che attraggono le janare per il sabba. Entrambi i canali confluiscono all’imbocco del Fosso della Ripa della Conca, dove ancora si forma una piccola cascata. In questo luogo, in passato, vi erano numerosi appezzamenti di terra coltivati come orti e grandi vasche d’acqua a differenti livelli che, fatta defluire, faceva girare la ruota a pale d’un mulino che ha funzionato sino all’inizio del Novecento.
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“Lu Cifru” è Lucifero, vale a dire il diavolo, spesso evocato dai contadini nei racconti e in qualche canto.
Le janare, nell’immaginario collettivo montecalvese, sono donne giovani, belle e intriganti nate la notte di Natale e solo impropriamente sono l’equivalente delle streghe, raccontate sempre come vecchie e repellenti. Uscivano nelle notti di plenilunio e s’introducevano nelle case altrui, infilandosi attraverso le fessure delle porte chiuse, per fare malie e dispetti a coloro che stavano dormendo. Si raccontava pure di episodi in cui le janare avevano prelevato dalle culle neonati belli e li avevano sostituiti con neonati brutti.
L’antidoto era rappresentato dal sale che si cospargeva all’interno di porte, finestre e balconi. Un diversivo era rappresentato da scope di saggina e falcetti che, collocati dietro le porte, distraevano le janare, una volta entrate, impegnandole per un’intera notte nel conteggio dei fili della scopa o dei dentini della falce. Prima che sorgesse il sole, però, erano obbligate a fare rientro frettolosamente alla proprie dimore, perché erano nude e visibili alla luce naturale.
Anche le stalle delle masserie erano luoghi frequentati dalle janare dove, una volta penetrate, si divertivano a legare in piccole trecce il crine di cavalli e giumente. Era impossibile sciogliere quelle trecce al punto che potevano essere solo tagliate. Se un mattino “lu ualànu”, il capo dei dipendenti del massaro, riscontrava nella stalla che delle cavalle avevano i peli della coda e della criniera intrecciati fortemente a piccole trecce, subito si diffondeva la notizia per le masserie che quella era opera delle janare. E la cosa impressionava la gente a tal punto che, oltre a raccontarla in modo pittoresco, il ricordo dell’accaduto permaneva per anni, alimentato e accresciuto dalla fantasia degli anziani dialettofoni.
Le janare, oltre che introdursi nelle case, accorrevano in volo ai raduni notturni che si tenevano, presieduti dal diavolo, sotto il noce universalmente noto di Benevento. Esse volavano sulle scope di saggina dai vari paesi dell’Irpinia, del Sannio e pare anche dall’Abruzzo e dal Molise. A Montecalvo, si raccontava di piccoli raduni notturni attorno ai peri isolati nelle radure erbose destinate al pascolo di greggi e mandrie.
Il sale era bandito nella cucina delle janare. Era il loro nemico. Preparavano cibi insipidi, al punto che se una donna del paese ometteva di salare le proprie pietanze e l’impasto della farina per il pane, veniva sospettata di essere janara e ciò alimentava il circuito del sospetto, del pregiudizio e della maldicenza paesana.
Un giorno, in una casa, si erano radunate delle donne ed erano indaffarate a impastare la farina per fare la pasta. Arrivato all’improvviso il proprietario, e avendo intuito che si trattava di janare, gridò: «E lu ssale?». Esse sparirono in un baleno, senza curarsi del disordine che avevano combinato.
Sino a metà Novecento, quando i paesani si incontravano il sabato mattina, lo scongiuro ricorrente era: «Ogg’è ssàbbutu, salut’a nnuji!», «Oggi è sabato, salute a noi!». Questo perché il sabato era il giorno del sabba, vale a dire il gran raduno delle janare col diavolo.
Si ritiene che il termine janara derivi da janua, porta dal latino, perché si raccontava che lei riuscisse a introdursi in una casa entrando per la fessura sotto la porta chiusa. Altra ipotesi è che janara significhi donna di Diana, femminile di Janus, potenza celeste, dea lunare, signora dei monti e delle selve, protettrice delle donne e della maternità. Un qualche legame vi è anche con Iside, dea egizia protettrice della maternità e della fertilità, signora della magia e maestra di incantesimi introdotta dai Romani nei territori dell’impero e quindi anche nel mondo sannita.

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