Cultura e tradizione

PAZZIJEDDRE DI CRIJATURE
(Giochi di ragazzi)

Mario Corcetto

Essere ragazzi al Trappeto era solo un fatto anagrafico. Si passava dalla fanciullezza alla maturità, senza transitare dall’età della spensieratezza cosciente. I bambini erano destinati dapprima alle incombenze minute  (come,  ad  esempio,  accudire  gli  animali  da  cortile,  andare  alla  fontana  a prendere ‘na véppita d’acqua fréscha”, raccogliere le granaglie cadute dalla rachina su cui erano state poste ad asciugare), e, via via che passavano gli anni, venivano adibiti a mansioni sempre più impegnative fino a raggiungere la piena maturità “contributiva” (nel senso di contribuire al benessere della famiglia) già in prossimità dell’adolescenza. Il passaggio all’ “inquadramento” superiore, in casa veniva formalmente sancito con l’ammissione alla tavola dei grandi, lasciando la buffitteddra, posta in un angolo della casa, ai fratelli minori. Questo precoce coinvolgimento dei figli nelle attività della famiglia non era, però, una forma di sfruttamento. Certo, delle braccia in più facevano comodo, ma, per quanto possa sembrare strano secondo la mentalità contemporanea, esso era principalmente un’attribuzione di dignità. L’ammissione all’elevazione sociale, che, per il povero trappetaro, non poteva che derivare dal lavoro. Non a caso la prima qualità che si declamava di una persona per bene era il suo essere “fatijatore”. Così, ad esempio, il pretendente di una giovane donna poteva anche non avere nulla, ma era lo stesso ben accetto, quando ne chiedeva la mano, se aveva questa qualità. Insomma, il lavoro minorile era una palestra di vita, con risvolti tangibili nell’ambito della comunità in cui si viveva.

E che non fosse malevola l’intenzione dei genitori che avviavano precocemente i figli al lavoro, ne è riprova la tenerezza che i genitori avevano e mantenevano verso la prole. Magari non esternata con effusioni d’affetto, per ragioni connesse al costume (il padre temeva di indebolire la sua immagine autoritaria che il ruolo di capo di casa gli imponeva). Qualcosa in più si concedeva la madre, ma nulla che assomigliasse, neanche vagamente, alle smielate moine a cui spesso si assiste oggi. Perciò, fatta salva l’immagine e contrabbandando la cosa per una forma di risparmio, si trovava sempre il tempo per provvedere a qualche rudimentale ninnolo per il gioco del piccolo: il padre costruiva lu strummilu o la carrozza per il figlio e per la figlia la cunnilecchja dove far dormire la pupeddra che la mamma confezionava piegando qualche misero straccio. Quando la mamma  ammassava faceva sempre la vaccareddra (un pezzo di pasta tagliato a forma di X, che, con un notevole sforzo di fantasia, lo  si  poteva assomigliare ad  una piccola mucca acquattata a gambe divaricate), cotta insieme alle pizze bianche, per il piccolo di casa.

In conseguenza dell’inizio precoce dell’attività lavorativa per i ragazzi trappetari, il gioco diventava attività residuale a cui dedicarsi nelle giornate fredde e piovose d’inverno, quando anche i grandi godevano di qualche distrazione, o  da esercitare la sera, rubando tempo al riposo e sfidando la fifa del rientro a casa col buio. A niente servivano le paure  che gli anziani astutamente cercavano di infondere nei  ragazzi, raccontando loro cunti di janare e di lupi pumpinari, per scoraggiarne l’uscita dopo cena che, per i grandi, significava preoccupazione e ritardato riposo per via della porta che doveva rimanere aperta fino al rientro dei figli.

Tuttavia, ogni volta che era possibile sottrarre tempo agli impegni, ai ragazzi trappetari non mancavano i giochi e le attività ludiche con cui intrattenersi con i compagni. Principalmente giochi di gruppo, che, fatti a coppie o a squadre contrapposte, stimolavano quella sana competizione che aggiungeva gusto allo svago. Si giocava cu li bbittùni (che la mia generazione sostituì con le biglie), a stacciu, a trenna trenna, ammuccia ammucciarella, a una la luna, a mazz’e pijéuzu, a cucuculicchiju, anghjappasalvà

Descrivere nel dettaglio tutti questi giochi sarebbe bello, ma sarebbe operazione complessa che richiederebbe buona memoria e il tempo di un pensionato! Una volta ho provato a scrivere le regole del gioco delle biglie (che, come dicevo aveva soppiantato in età “moderna” quello dei bottoni) ed ho scoperto che l’italico vizio di normare dettagliatamente ogni fatto umano non era estraneo a noi piccoli montecalvesi. Tra cacciatori, passerotto, tazzicu, ci vieni o ci vengu, vuttà la manu, tacchettu e tiru, n’gapu e di zenna ‘n zi fa, vuò fa na cósa… c’era una congerie di regole dalla quale non se ne cavavano agevolmente le gambe! Ma che, tuttavia, ognuno di noi conosceva meglio che un avvocato il codice. Ed eravamo così inflessibili nell’esigerne il rispetto, da far assurgere il gioco alla cosa più seria con cui avessimo a che fare! Ricordo lo scarso riguardo che avevamo per le aiuole della vecchia “Piazzetta” – il cui nome va virgolettato per rispetto affinchè non si scambi il centro del nostro mondo con un anonimo angolo di qualche squallida periferia – tutte trasformate in comode piste, opportunamente delimitate, per il gioco con le biglie. Reso ancora più stimolante dall’insidia delle vicine baracche di legno, montate all’indomani del terremoto del 1962, sotto le quali si potevano, irrimediabilmente, perdere le biglie se si sbagliava il tiro.

Ogni volta che una baracca veniva smontata, perchè la famiglia che l’occupava aveva trovato una sistemazione migliore, tanti ne gioivano: il vecchio proprietario che dava addio al tugurio che aveva dovuto considerare casa per molti anni; il suo vicino che aprendo la finestra ora aveva una vista migliore … e noi ragazzi che potevamo andare alla ricerca delle biglie lì finite negli anni e sui cui chi le trovava poteva vantare il diritto di proprietà!

Delle altre attività ludiche, ne ricordo con particolare piacere due, che, oltre al diletto, prevedevano anche una forma di remunerazione: lu carnuuàli e la raccolta di li cicciuótti.

Dal 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio abate, con l’inizio del periodo carnascialesco (lo ricordava il vecchio adagio paesano Sant’Andanduónu maschere e suóni), quasi tutte le sere, specialmente il giovedì e la domenica, i ragazzi trappetari si mascheravano, generalmente con abiti smessi dai grandi, si truccavano le facce col sughero bruciato e giravano per le case del paese.  L’ingresso non era scontato e se ne chiedeva il permesso con la formula “C’è permesso carnuale?”. Se la famiglia visitata accettava, il gruppo entrava ed offriva un piccolo spettacolo, generalmente il ballo della tarantella, magari al suono di un organetto (lu rucanettu) o di una fisarmonica o di un’armonica a bocca (lu sunèttu) rigorosamente suonati ad orecchio. Terminata la piccola esibizione la famiglia visitata offriva un dono: qualche uovo, un po’ di vino, qualche patata, qualche tarallo, qualche caramella, qualche spicciolo, ritirato dal più grande ma immediatamente contabilizzato nella mente di ognuno!

Per invogliare la “donazione” del regalo più ambito, un pezzo di salsiccia, si recitava una filastrocca che, senza mezzi termini, si chiudeva con un scherzoso malaugurio in caso di diniego: “carnuuali, carnuualicchju dammi nu pócu di sausicchju e si nu’ mmi lu bbuoji dà chi ti pozza ‘nfracità”. Ad onor del vero, però, bisogna dire che non accadeva mai che chi accettava la visita dei ragazzi li mandasse via  a mani  vuote. Terminato il  giro,  i  regali venivano divisi in  parti uguali oppure consumati insieme presso la casa di qualcuno del gruppo.

La raccolta di li cicciuótti, invece, avveniva la mattina del due novembre, giorno della commemorazione dei defunti. La sera prima le massaie mettevano a lessare, nella pignatta vicino al fuoco, li cicciuótti: un miscuglio di legumi secchi (fave, fagioli e ceci) per regalarli, in suffragio delle anime del Purgatorio, ai bambini che ne avrebbero fatto richiesta l’indomani. Così, il giorno dei morti si vedevano bambini girare per le strade del quartiere, con un piatto o una scodella in mano, gridando: cicciuótti, cicciuótti pi l’anima di li muórti… Anche questa richiesta si chiudeva con una scherzosa quanto raccapricciante malasentenza: e si nu’ mmi li bbuoji dà, tanta figli muórti puozzi fa! Una versione paesana, sicuramente più incisiva e convincente dell’odierna halloween, durante la quale i bambini girano di casa in casa con la più delicata formula del dolcetto o scherzetto.

Qualche cucchiaiata di cicciuótti veniva offerta a chiunque ne facesse richiesta, senza preferenze, altrimenti ne sarebbe stata vanificata la finalità.

I legumi raccolti, con l’aggiunta del sale e di un po’ di olio, costituivano il pranzo gratuito per i bambini e, in caso di raccolta abbondante, anche per il resto della famiglia, la quale, in pratica, si rifaceva di ciò che a sua volta aveva donato.

 

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