Fascismo,  Guerra,  I confinati,  Il nostro passato

Racconti dal Confino delle Isole Tremiti: Josip Kravos

Josip Kravos

Josip – Giuseppe Kravos (S. Croce di Audissina 5 agosto 1909 – Trieste 13 aprile 1972) viene arrestato il 5 settembre 1940 a Cagliari1, trasferito nelle carceri di Trieste e successivamente “condannato” all’internamento sull’isola di San Domino (Tremiti) dove rimane dal 27 marzo 1941 al 7 gennaio 1942, quando, in seguito a una richiesta di trasferimento per motivi di salute (deperimento psicofisico) viene inviato nella località di internamento di Montecalvo Irpino, in provincia di Avellino. La descrizione del suo periodo di internamento a San Domino è tratta da: Josip Kravos, Moje in vaše zgodbe iz let 1931 – 1945, ZTT-EST, Trst – Trieste, 1975, pp. 73-85.

INTERNAMENTO ALLE TREMITI
L’isola di San Domino era piena di internati di tutte le etnie, italiani, croati, francesi, spagnoli perfino ebrei e zingari. C’erano anche alcuni neri. Ma per metà eravamo sloveni e croati, perlopiù dalla Venezia Giulia. Noi eravamo tutti antifascisti, anche se di diverso credo ideologico.
La maggior parte degli internati politici italiani era composta di comunisti. Erano ben organizzati. Ricevevano notizie e istruzioni dalla terra ferma. Fra loro, il personaggio di spicco era il dottor Eugenio Musolino, persona piena di entusiasmo, sempre ben disposta e molto rispettosa nei confronti degli altri. I comunisti della Venezia Giulia si erano uniti a loro. Non mi ricordo chi fosse il capo tra gli sloveni. Ho sempre un bel ricordo del mio benefattore Rihard Cebron, di Armido Ukmar e del buon Rudi Vilhelm, uomo taciturno.
Tra gli internati comuni c’erano anche dei truffatori, degli assassini, rapinatori e borsaioli. C’era anche qualche cerebroleso. Questi erano stati internati per fare «numero», al posto dei veri delinquenti che invece avevano corrotto i testimoni ed erano riusti a salvarsi.
Eravamo di diversa estrazione sociale e mestiere: ufficiali, avvocati, ingegneri, medici, artisti, ma anche commercianti, artigiani, pescatori e contadini. Tra noi c’era una sola donna, una comunista molto fiera di sè che viveva un po’ appartata nella propria cameretta. Gli organi di sicurezza svolgevano il loro lavoro, ma non erano troppo severi. Abitualmente si attenevano rigorosamente alle norme previste. Erano fascisti per opportunismo e probabilmente il loro servizio sull’isola era una punizione.
Noi internati ricevevamo cinque lire al giorno. Con questi soldi dovevamo provvedere a tutto, dal cucchiaio per mangiare, al lavaggio degli indumenti. Sulla carta annonaria c’era un lungo elenco di ciò che potevamo acquistare, ma in realtà ricevevamo regolarmente solo 150 grammi di pane al giorno. Nello spaccio dell’isola si potevano trovare abitualmente i ceci, la cipolla e la marmellata; non c’era altro. A volte attraccavano i pescatori delle isole vicine e ci offrivano del pesce che non erano riusciti a vendere al mercato.

Per pranzo cucinavamo erbe selvatiche con i ceci, nei giorni migliori con il pesce: il tutto senza una goccia d’olio. Per cena c’era la marmellata annacquata oppure cipolla. Questo nei tempi di abbondanza. Nella primavera del 1941, quando l’Italia attaccò la Grecia e la Jugoslavia era anche peggio. Si rimaneva per settimane e settimane tagliati fuori dal mondo, una volta per quasi due mesi. Non so se era una scusa o no, ma la polizia ci diceva che le imbarcazioni non potevano raggiungere l’isola, perché il mare era minato. Mancava tutto, e il peggio era la mancanza dell’acqua potabile. Di solito portavamo i barilotti dalla riva, dove c’era la cisterna che le navi riempivano. Quando venne a mancare quell’acqua si poteva utilizzare solo l’acqua piovana che si raccoglieva dai tetti nei pozzi. Ma i pozzi non erano costruiti bene e quindi l’acqua era fangosa, piena di varie bestiole. Per poterla bere la filtravamo e bollivamo.
Quella volta eravamo denutriti e stremati. Sedevamo per ore e ore sul muro che circondava il vecchio edificio della stazione di polizia e fissavamo verso est per vedere se arrivava la nave con la posta, l’acqua e gli alimenti. Ogni tanto qualcuno prendeva in mano la carta annonaria e leggeva ad alta voce l’elenco delle vivande e le dosi di olio, pasta, riso e pane che quotidianamente avremmo dovuto avere a disposizione. Alcuni ridevano nervosamente, altri bestemmiavano o facevano uscire dalle loro bocche dei suoni strani. Aspettavamo la nave e a volte ci chiedevamo chi tra noi avrebbe ricevuto il pacco di viveri da casa. Lo dividevamo in anticipo e sempre qualcuno rimaneva fuori dalla conta. Il dottor Eugenio Musolino e Gasperini avevano ricevuto un paio di volte i pacchi che hanno sempre diviso con tutti noi. Eravamo in trenta in una baracca e una volta ho ricevuto due biscotti, uno me lo sono lasciato per il giorno dopo.
Sulla nostra isola non c’erano molti animali. C’erano tante cimici, pidocchi e pulci che ci succhiavano quel poco sangue che era rimasto nelle nostre vene. Le chiocciole erano quasi scomparse, c’erano le lucertole e le cavallette. Mi ricordo anche di un cane marrone con macchie bianche che un giorno sparì. Mi risentii quando seppi che lo avevano fatto fuori i miei amici e si erano scordati di invitarmi.
Agli inizi la polizia era severa e si atteneva rigorosamente alle norme. Ci sorvegliavano perché non festeggiassimo le nostre ricorrenze, come ad esempio il primo maggio. In quell’occasione ci hanno controllato anche il cibo perché non mangiassimo qualcosa di più buono del solito. Più tardi, quando l’esercito nazista subì delle disfatte presso Smolensk, la polizia si era calmata un po’. Ho spiegato a uno di loro che Smolensk deriva dalla parola pece, ed è quindi inevitabile che giocando con la pece si rimanga invischiati. Si allontanò impaurito o forse solo smarrito. In quel periodo abbiamo saputo anche che il re d’Abissinia aveva riconquistato la capitale. Tre dei comuni sono scappati quella notte dalla baracca e hanno cantato in maniera eccellente la canzone sulla vittoria in Abissinia ”Faccetta nera”. La mattina i tre furono arrestati e portati nelle carceri di Foggia. Alla partenza noi li prendevamo gioco di loro dicendo che avevano fatto una fesseria, ma loro ci risposero di aver calcolato tutto, e che i fessi eravamo noi. Loro preferivano il carcere in continente, dove avrebbero avuto almeno i pasti regolari e la posta. Noi aspettavamo ancora l’arrivo della nave con le derrate alimentari. Era estate, la siccità aveva seccato anche quel poco di vegetazione che c’era e non potevamo aiutarci in nessun modo. Per indigenza sembravamo dei derelitti che senza forze contano i giorni senza sapere quando la nave sarebbe arrivata. Le notizie dal continente erano scarse, posta neanche a parlarne.
Dopo 52 giorni arrivò il piroscafo, portò le derrate, l’acqua e la posta. Poteva scriverci un solo membro della famiglia, la madre o la moglie. Le lettere erano spesso censurate. In quell’occasione la nave aveva portato anche del vino e arachidi. Berto ce lo annunciò gridando che dovevamo assolutamente approffitarne. Gli dissi che non avevamo soldi e che quindi non se ne poteva fare nulla. Ma senza pensarci troppo indicò la mia fede nuziale. Nemmeno io ci pensai su due volte e gliela diedi. Ritornò presto con la giacca in mano, le maniche legate e piene di arachidi. Aveva anche una bottiglia di vino.
Avevamo fame e abbiamo mangiato e bevuto finchè non siamo stati male e abbiamo vomitato. Un po’ perché non eravamo più abituati a mangiare, ma anche perché il vino era andato a male.
Sarà stato all’incirca in quel periodo che trasferirono alcuni di noi dalle barracche nelle casette che avevano costruito apposta. La polizia stava molto attenta a mescolarci bene tra di noi a seconda delle convinzioni politiche, della nazionalità, dei vari disagi e malattie. Uno degli psicolabili stava nella stanza con me. Virgilio, era di Genova. Dalle lettere che di rado riceveva avevamo capito che era stata internato sull’isola al posto di un ladro fascista. In realtà anche gli altri nella stanza erano un po’ strani. Uno era di Verona, era comunista. Era epilettico. Con noi c’era anche Berto di cui ho parlato prima. Era buono e molto forte, ma i suoi nervi erano a pezzi. La notte spesso digrignava i denti tanto forte da svegliarci tutti. A volte si alzava sul letto e pisciava su di noi. La mattina dopo si scusava dicendo che era malato, che aveva subito un processo e cinque anni di carcere duro. Cercava poi di rabbonirci facendoci dei favori.
Virgilio aveva avuto una forte infiammazione reumatica e la notte si lamentava a voce alta, era penoso ascoltarlo. Berto aveva preso una cordicella abbastanza forte e aveva preparato un cappio su un pino. Poi era tornato nella casetta, avvolto Virgilio nella coperta e lo aveva portato fuori, dicendogli di non lamentarsi nè gridare, che presto gli sarebbe passato tutto, che si sta adoperando per il suo bene. Per fortuna non dormivo come gli altri e gli corsi dietro per vedere cosa aveva in mente di fare. Berto aveva sollevato Virgilio e gli stava infilando il collo nel cappio mentre con la coperta cercava di soffocare le grida dell’infelice. Mi sono nascosto e ho atteso che Berto se ne andasse, avevo paura. Poi presi due pietre affilate, salì sul pino dove il corpo di Virgilio sussultava e spezzai con le pietre la cordicella con la quale era appeso. Sono corso poi nella casetta vicina dove c’era un infermiere – un greco. L’infermiere aveva massaggiato con cura l’impiccato mentre noi cercavamo di tranquillizzarlo dicendogli che Berto lo aveva fatto per il suo bene. Alla fine, poiché lo ripetevamo tutti, il poveretto finì per crederci e così la polizia non seppe nulla dell’accaduto.
La sera seguente avevamo già dimenticato quanto era successo, solo Berto aveva forti scrupoli di coscienza. Virgilio aveva l’abitudine di pregare a voce alta. Quella sera Berto ed io ci eravamo uniti a lui in preghiera. Alla fine Berto mi chiese di dire il Padre nostro di Cankar. E alle parole «Solo comanda, e la tua viva parola riempirà tutti i cuori che potranno conoscere la giustizia», si commosse e si mise a gridare: «Giustizia, giustizia!». Poi si mise a piangere. Si vergognava delle lacrime, ma sosteneva che non poteva trattenerle, benché avesse già 42 anni. Aggiunse che anch’io spesso piangevo nel sonno, che siamo tutti sfiniti e disperati e quanto è difficile sopportare il tutto. Disse che da quel momento in poi si sarebbe adoperato per essere più tollerante, che tutti dovevamo sopportarci e cercare di essere più buoni gli uni verso gli altri perché tutti siamo peccatori. Basterebbe attenerci al comandamento «Ama il tuo prossimo», e sarebbe stat la fine dell’odio, delle violenze e della guerra. «Hai detto bene Berto e quando la guerra finirà vivremo tutti una vita migliore», dicevo e lo consolavo.
A volte andavamo a guardare gli zingari che stavano per conto loro, un po’ appartati dagli altri internati. Cucinavano all’aperto e si riscaldavano attorno al fuoco in gruppetti. Venivano da posti diversi dell’Italia e della Jugoslavia. Dopo i pasti suonavano i loro strumenti e cantavano in modo molto armonioso e malinconico – come sano farlo solo gli zingari. Una volta c’era tra di noi un ragazzo di carnagione scura, diceva di essere serbo. Gli si avvicinò uno zingaro ben vestito e gli chiese nella loro lingua se era zingaro anche lui. Il ragazzo gli rispose che era serbo. Lo zingaro gli diede uno schiaffo e gli chiese perché provava vergogna per le proprie origini quasi non sapesse l’importanza della propria madrelingua. Il ragazzo chinò la testa e si mise a piangere, poi rivolse all’altro l’altra guancia perché lo colpisse. Si abbracciarono.
A volte la polizia si prendeva gioco di noi. Era successo a un appello mattutino. Conoscevano bene le condizioni familiari di ciascun internato. Sapevano tutto dalle lettere che censuravano, e poi ricevevano segnalazioni sul nostro conto anche dalla terraferma. Quella mattina avevano comunicato che le mogli di due internati avevano ricevuto il sussidio. Ma noi sapevamo che le due donne vivevano con altri uomini. Lo avevano detto le guardie davanti a tutti, senza ritegno, mentre avrebbero potuto chiamarli in disparte e non offenderli e umiliarli in quel modo. Il primo si mise a sbraitare e bestemmiare, l’altro a piangere e disperatamente a ripetere: «Aiutano le puttane, noi no». Noi restammo in silenzio interdetti per un simile supplizio. I poliziotti e un gruppo di internati comuni ridevano a squarciagola umiliando ulteriormente con il loro comportamento i due uomini. Dopo l’appello il dottor Eugenio Musolino e Gasperini andarono erano negli uffici per protestare per quel comportamento così offensivo.
A un certo punto trovammo un altro modo per impiegare il tempo. L’ingegnere Josip Rustja di Gorizia aveva la moglie molto ammalata e dopo ripetute richieste aveva ottenuto il permesso di andare a trovarla. Al ritorno aveva portato con sé l’immagine della Madonna di Sveta Gora (Montesanto). Era diventata il simbolo della nostra patria e del focolare domestico. Chiedemmo di poter costruire un altare da mettere al posto del semplice tavolo che veniva usato ogni domenica per celebrare la messa nella cantina della stazione di polizia. L’ingegnere Rustja fece richiesta di potere usare un’accetta in modo che Franc Zafred e Alojz Cerne potessero tagliare degli alberi di pino. Poi, su progetto dell’ingegnere segammo e piallammo fino a farne un altare al cui centro venne posta l’immagine sacra addobbata con delle frasche verdi. Il sacerdote veniva ogni domenica dall’isola di San Nicola. Per la benedizione si radunò un gran numero di persone, molte più del solito. Il prete fece un’omelia più lunga del solito parlando di pace, amore e giustizia.
Quell’autunno arrivarono molti internati dalla Slovenia occupata dagli italiani. Loro non erano così forti come noi del Litorale che abbiamo avuto modo di forgiare i nostri caratteri con le persecuzioni fasciste durante tutto il ventennio. Noi eravamo anche molto più uniti. Perciò non abbiamo legato con loro. Ho un gran bel ricordo di France Zafred di Košana vicino a Postojna. Era una mente acuta e semplice nello stesso tempo. Aveva uno spiccato senso per la politica. Con France parlavamo spesso del nostro futuro, facevamo progetti su come dopo una simile rovina si sarebbe ricostruito e messo tutto a posto per il bene di tutti. «Sono convinto – diceva – che le dittature fascista e nazista e tutto ciò che assomiglia loro, verranno distrutte». Quando gli chiesi come potesse prevedere la loro disfatta con tanta sicurezza, mi disse con gran semplicità che simili governi, anche se non entrano in guerra, non possono durare perché non hanno basi naturali per esistere. «Allora secondo te l’entrata in guerra è la loro logica fine?». « Proprio così, poiché nella loro tirannia non c’è spazio per l’opposizione e con ciò non hanno più lo specchio in cui riflettersi, quindi non possono vedere se stessi. Secondo me è come se nella natura ci fossero le volpi senza i conigli o le rondini senza le mosche. Anche peggio – continuò France. L’uomo non ha solo il corpo, ha anche uno spirito – i sentimenti e la volontà, la predisposizione al bene e al male. E se tutto ciò non viene indirizzato a unirsi in un insieme armonico, ne esce uno sgorbio e va necessariamente alla rovina. Per questo le persone devono essere libere. Questi sono i principi che dobbiamo sostenere e portare avanti quando finirà questa guerra». Era un ottimo amico e stavamo sempre insieme. Era buono con me e anche con gli altri. Quando riceveva il pacco lo divideva. Una volta, eravamo nella cucina comune e lui mi diede un osso di prosciutto già bollito, perché lo riutilizzasi. E lo feci. Avevo un pugno di fagioli rotti e una crosta di formaggio che mi aveva dato il dottor Eugenio. Il nostro panettiere Karel Novak, che faceva il pane per tutta l’isola ed era l’unico che non soffriva la fame, mi diede una manciata di pasta. Ma per insaporire la minestra avevo bisogno di altra carne e allora andai a caccia. Le lucertole erano difficilissime da catturare. Ma alla fine ne presi una ventina. Poi le cavalette. Con loro era più facile, ne catturai una trentina. Ho ripulito per bene tutte le parti, le ho tagliuzzate e bollite. In un’altra pentola avevo messo a bollire i fagioli e l’osso. Feci il soffritto con cipolla e aglio, aggiunsi i fagioli, poi l’osso e la ”carne”, e alla fine la pasta. Secondo i miei gusti aggiunsi un po’ d’acqua, del sale e alla fine la crosta di formaggio grattuggiata. La minestra era fatta. Ho invitato gli ospiti, in primis chi aveva contribuito, tra loro anche l’ingegnere Rustja. E mangiammo. Erano tutti entusiasti e mi chiesero la ricetta. Ma fino a oggi non l’ho mai svelata a nessuno. L’arte di arrangiarmi è una dote che ho ereditato da mio padre. Era una persona ragionevole, sapeva sempre arrangiarsi e mi è ancora d’esempio. La sua ferrea educazione mi ha temprato, è solo grazie a lui che sono ancora vivo.
In quel periodo ho chiesto il trasferimento nella casa dove era alloggiato France Zafred. Quando ho avuto la conferma, ho iniziato il trasloco. Berto stava in silenzio, con lo sguardo volto a terra. Virgilio piangeva e mi aiutava a trasportare le mie cose. Era una situazione brutta e difficile.
Eravamo in quattro in una piccola stanza. Oltre a me e a Fance c’erano l’avvocato Lanzara e Kucera, un croato di Trieste, anche lui avvocato. Ci intendevamo a meraviglia. Ma ben diverso era nella stanza di fronte alla nostra. Qui abitava il nero Peter, l’istriano Demo e il portoghese Dar. E questi tre andavano d’accordo, era il quarto che disturbava perché era il confidente della polizia.
All’arrivo della nave avevamo ricevuto buone notizie. France aveva portato del vino e noi ci eravamo ubriacati non per l’eccessiva quantità, ma per la scarsa qualità del vino e perché eravamo quasi a digiuno. E abbiamo incominciato a cantare le canzoni di protesta sfidando tutti con esclamazioni del tipo: Viva la libertà! Morte al fascismo! Abbasso il tiranno! Viva Churchill!
Il giorno dopo siamo stati convocati con l’avv. Lanzara alla stazione di polizia per insubordinazione. Io avevo incominciato a tergiversare che avevamo bevuto a digiuno, che eravamo amareggiati e disperati. Ma l’avvocato adottò invece una linea netta sostenendo che ci trovavamo in quel posto perchè eravamo contrari al regime fascista e che il nostro comportamento era quindi del tutto normale.
Dopo tre settimane ed era giunto il momento per pianificare la vendetta contro la spia. Mi informai bene sulle abitudini dell’infame che rientrava abitualmente molto tardi. Allora esposi agli altri il mio piano. Con France e con Peter – che aveva fatto pugilato – ci appostammo nel corridoio buio. Al suo rientro con la coperta gli avvolsi il capo e gli altri due incominciarono a picchiarlo. Per un po’ si sentirono i lamenti, poi i gemiti e alla fine, dopo un paio di pugni del nero, non si sentì più niente. Presi la mia coperta e sgusciammo nelle nostre stanze, ognuno nel proprio letto. Ci volle un po’ di tempo prima che si udissero di nuovo i gemiti. Allora ci alzammo tutti, accendemmo la luce e uscimmo in corridoio. Con aria preoccupata gli chiedemmo cosa fosse successo. Poi lo portammo nel letto e restammo lì a confortarlo.
Due giorni più tardi ci chiamarono per l’interrrogatorio. A ognuno di noi fu chiesto di raccontare cosa avevamo visto e sentito quella sera. Tutti raccontammo la medesima versione dei fatti: che l’infelice era molto nervoso e che spesso sbatteva la testa. Quella notte sentimmo uno sbattere della porta, ma a nessuno di noi venne in mente che S. I. si stesse picchiando in un modo così violento.
Al ritorno France disse che aveva addiritura inscenato davanti ai poliziotti come l”’infelice” fosse solito sbattere la testa contro la porta e che i poliziotti avevano riso sonoramente durante la sua performance. Non so se ci credettero, però non presero provvedimenti nei nostri confonti, e il delatore venne trasferito in un altro edificio. Ed era proprio quello il nostro obiettivo. In quell’occasione France mi dette una pacca sulla spalla e disse: “Anche questa minestra ti è riuscita”.
I giorni autunnali erano interminabili e uggiosi. In simili circostanze ci riunivamo per cantare. Era un modo per scacciare la tristezza e la nostalgia di casa. Il coro era diretto da Ladi, ma l’anima del era Berto Mihalic. Ci spronava e sollecitava a cantare le canzoni popolari all’aperto perché secondo lui “la libertà doveva trovarci con il canto sulle labbra”. A parte che lui aveva una voce stupenda. I poliziotti ci lasciavano cantare, a volte si fermavano nelle vicinanze e ascoltavano per poi commentare i nostri concerti. Prediligevano le canzoni “Gor cez izaro” e “Prišlabo pomlad”. Anche gli zingari avevano imparato queste due canzoni e a volte venivano appresso per accompagnare il nostro canto con i loro violini.
Con l’inverno le ristrettezze aumentarono. Si cantava ancora per non pensare alle sofferenze. Poi, prima di Natale sopraggiunse la notizia della sentenza emessa dal Tribunale speciale al processo tenutosi a Trieste2 Le condanne dei nostri compagni ci avevano fatto ammutolire. Era un colpo terribile. Non riuscivamo a farcene una ragione. Tutti gli sloveni dell’isola andavano in giro con il capo chino, come ombre. Conoscevamo tutti: Tomažic, la sua generosità e la sensibilità nei confronti di chi soffriva, Kos e Ivancic che torturati non avevano tradito gli amici né il deposito d’armi, Vadnal e Bobek che avevano portato le armi oltre il confine.
E poi tutti gli altri compagni che erano stati condannati a pene pesanti. Ad esempio Roman Pahor, che durante gli interrogatori suggeriva agli altri di addossare a lui tutte le azioni in modo da scagionare tutti gli altri. Ho spiegato ai compagni italiani il nostro dolore, perché loro erano meravigliati nel vederci così afflitti, non riuscivano a capire. Conoscevano le vicende dei nostri compagni solo da quello che avevano letto nei giornali fascisti. Ascoltando la nostra versione dei fatti, capirono e solidarizzarono con noi. Il generale Golia – che era con noi sull’isola – mi aveva espresso la propria partecipazione al nostro dolore dicendo che le condanne erano ingiuste e i fucilati degli eroi caduti per la libertà. Mi ha chiesto di trasmettere ai miei compagni che il popolo italiano non ne aveva colpa, la colpa era del regime fascista. Aggiunse poi che il nostro comportamento sull’isola rifletteva il nostro grado di cultura e civiltà. Lo ringraziai con le lacrime agli occhi anche a nome dei miei compagni.
In uguale misura partecipava al nostro dolore il semplice siciliano Sarace. Mi aveva invitato al suo fuocherello sul quale cucinava in una lattina le chioccioline, era il suo pasto quotidiano assieme a un pezzetto di pane giallognolo. Gli chiesi perché non entrasse a far parte di uno dei gruppi per i pasti in comune, ma lui rispose che non poteva permetterselo. Delle cinque lire quotidiane doveva mandare a casa almeno tre, perché sua moglie e i figli ne avevano bisogno. Anche lui ripeteva quanto fosse addolorato per ciò che doveva subire la nostra gente.
Qualcuno si ricordò solo tre settimane più tardi di riunire il coro per onorare con i canti la morte dei nostri compagni. Ci siamo radunati da Torkar che ci aveva ospitati più volte ed era una delle persone più rispettabili dell’isola. Devo aggiungere che era l’unico che non riceveva quelle cinque lire quotidiane. Provvedeva a tutto da solo con i suoi mezzi, unico sull’isola. Veniva da Podbrdo e la polizia fascista lo aveva segnalato come “pericolo numero uno”. Provvedevano al suo modesto sostentamento da casa. Quella fu una serata per me indimenticabile. Parecchi di noi non potevano trattenere le lacrime e abbiamo cantato con tanto sentimento per rendere onore agli eroi – vittime.
Stavo deperendo. Le torture precedenti e le ristrettezze che imponeva la vita sull’isola mi stavano sfinendo. Spesso mancavo all’appello mattutino, non riuscivo ad alzarmi dal giaciglio. Perfino il nostro direttore del coro mi disse – in maniera molto sgarbata – che la mia voce non faceva fare una bella figura al coro e che si vergognava della mia presenza3.  Mi aveva offeso a morte, perché in quelle circostanze cantavamo per sollevare il nostro morale. Da allora non cantai più.
Poiché mancavo troppe volte all’appello, venne a farmi visita l’ispettore di polizia. Mi promise che avrebbe mandato il medico. Questi mi visitò e redasse un certificato medico e anche una domanda di trasferimento.
Se ora ripenso ai compagni dell’isola di San Domino che non ci sono più, mi viene in mente Karel Novak, il panettiere che cercava di aiutarmi. Mi faceva del pane speciale con aggiunta di olio e me lo portava in stanza dicendomi che dovevo mangiarlo. Ma io non avevo nemmeno la forza di mangiare. Anche France era lì a tenermi compagnia e chiedermi di mangiare. Entrambi mi sollecitavano a reagire. Karel mi raccontava che quella mattina avevano trasportato la farina da San Nicola, che era distante da San Domino solo un chilometro. Con loro c’era un poliziotto. « Il tempo era cattivo come spesso d’inverno. A metà percorso la scialuppa si è rovesciata. Ho girato subito la scialuppa e ho aiutato il poliziotto a salire, poi mi sono tuffato per recuperare anche la farina e siamo arrivati sani e salvi. E domani ci sarà il pane sull’isola ». Con France ci siamo congratulati con lui: «Il tuo è stato un gesto eroico, ti siamo molto grati. Il tuo eroismo è esemplare e tipico di un buon carsolino». Ho aggiunto che anche il nostro France Zafred è un eroe senza pari, anche se non si vede. Cosa non aveva fatto France con quella faccia da contadino, il cappello tutto sciupato che portava sempre su quella testa così intelligente. Ed era un vero artista nella lotta illegale dove contavano i fatti, non solo l’ideologia.
Avevo quasi dimenticato la promessa del medico, quando tre settimane più tardi mi comunicarono che la richiesta di trasferimento era stata accolta. Potevo trasferirmi sul continente, a Montecalvo Irpino.
Prima della mia partenza ci siamo nuovamente riuniti da Torkar. Abbiamo cantato insieme e io ho recitato il poema “Kovaška” di Župancic. Per me era una situazione difficile, non sapevo dove sarei andato a finire e lasciavo lì gli amici più cari e non sapevo se li avrei più rivisti. Quella è l’ultima volta che sono stato con France Zafred, caduto più tardi nelle file dei partigiani. Per l’ultima volta ho visto il nobile Zorko Kralj e tanti altri che sono periti nella lotta o deceduti lì in conseguenza delle cattive condizioni. Tanti sono oggi dimenticati e messi in disparte, anche se hanno dato tutto per la libertà del loro popolo. Altri sono sopravvissuti alla guerra e hanno ottenuto anche delle decorazioni. Così è stato per Rihard Cebron, che ha avuto il grado di alto ufficiale. Ma c’erano tanti combattenti meravigliosi di cui non ricordo più i nomi.
Tra gli italiani so soltanto che Aldo Finzi sarà uno delle 300 vittime che i nazisti hanno trucidato a Roma. Il dottor Eugenio Musolino, Gasperini e altri sono rimasti fedeli comunisti e più tardi hanno occupato posti di rilievo nel partito. Gli altri si sono dileguati, ognuno a casa, dai propri cari, per dimenticare al più presto e guarire …

(su gentile concessione di Bogomila Kravos)

 

  1. Allo scoppio della guerra, Josip Kravos, come altri sloveni di Trieste, viene “allontanato” dal confine e inviato nei cosiddetti “Battaglioni Speciali”. Delle formazioni controllate dall’esercito, ma disarmate e impiegate unicamente in lavori civili. E’ la stessa sorte che tocca a molti ragazzi istriani, ad esempio, in età di leva. E’ questo il motivo per cui Josip Kravos si trova a Cagliari nel momento dell’arresto ↩︎
  2. Nel dicembre del 1941 sessanta esponenti dell’antifascismo sloveno furono giudicati dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato in quello che viene ricordato come il “secondo processo di Trieste”. Le sentenze di condanne a morte furono 9 di cui cinque eseguite: Pinko Tomažič, Ivan Vadnal, Simon Kos, Viktor Bobek e Ivan Ivančič ↩︎
  3. Si riferisce al maestro Vladimir Švara con il quale Kravos aveva cantato in precedenza a Trieste. Kravos era un buon tenore solista, aveva studiato canto. ↩︎
Redazione

[Bibliografia di riferimento]
[M.Aucelli, Il fascismo a Montecalvo Irpino, Irpinia Libri, Monteforte Irpino AV, 2019]

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *