Cultura,  Cultura orale

Un patrimonio ritrovato nel dialetto Irpino dell’Ottocento

[Ed. 04/12/2003] Da molti anni sto lavorando al recupero del patrimonio di ciò che fu la civiltà contadina in Irpinia. La ricerca è incentrata sul mio paese natale, Montecalvo Irpino (AV), piccolo comune dell’Alta Irpinia nord-orientale, area geografica che è stata sempre a stretto contatto con le genti d’Abruzzo, del Molise, del Sannio e della Daunia.

Il suo territorio, già frequentato e abitato nel neolitico, è attraversato dal tratturo “La Via della Lana”, che consentiva ai pastori abruzzesi la transumanza delle greggi da Pescasseroli a Candela, in provincia di Foggia. Come molti paesi del Sud, Montecalvo è situato ad un crocevia, dove tanti dominatori sono passati con le loro culture, lasciando segni indelebili che si riscontrano nella lingua, negli usi e costumi, nella storia, nelle credenze magiche e religiose, nel carattere delle persone. È un paese che, come altri nei secoli passati, ha accolto genti di altre regioni meridionali, dopo che la peste o il colera ne avevano falcidiato gli abitanti. Infatti, su invito dei regnanti, molte famiglie della Sicilia e della Puglia erano sollecitate a spostarsi, con migrazioni interne, per cogliere nuove opportunità e ridare nel contempo linfa vitale a tutte quelle contrade del regno che si erano spopolate. Sarà anche per questo che nella parlata irpina si riscontrano termini propri delle aree della Magna Grecia. Il dialetto irpino ha come sostrato l’antica lingua osca. Gli Osci od Oschi erano stati il risultato della fusione tra gli Opici e i Sanniti, dopo che questi avevano conquistato la Campania intorno al 600 a. C.. In base a notizie storiche e riscontri archeologici, seppure frammentari, si può ritenere che i Sanniti ebbero radici comuni o discendenza dai Sabini, che erano stati spinti dagli Umbri verso l’Alto Lazio. I Sabini, nell’VIII secolo a. C., erano presenti sul colle del Quirinale ed ebbero frequenti scontri con i Romani, sino alla sconfitta definitiva subita nel 290 a. C.. L’identità dei Sanniti, che erano suddivisi in quattro tribù, Carricini, Pentri, Caudini e Irpini, cui dovrebbero essere aggiunti anche i Frentani, si andò consolidando come struttura economica, politica e sociale a partire dal V secolo a. C..Fieri e bellicosi, furono temibili avversari dei Romani per la conquista e il dominio sull’Italia peninsulare. Le ostilità con Roma, iniziate nel 343 a. C., si sarebbero chiuse solo nell’82 a. C. con lo sterminio di ottomila prigionieri sanniti, ordinato da Silla dopo la battaglia di Porta Collina. Il Sannio, territorio dei Sanniti, diventava così colonia romana con Isernia e Benevento. Gli Irpini divennero un’etnia autonoma nel 268 a. C., dopo la sconfitta riportata dalla lega sannitica. Furono sottomessi dai Romani nel 209 a. C. e sconfitti definitivamente nella guerra sociale dell’83 a. C., dopo l’ennesima ribellione verso Roma. Essi, come altri popoli antichi, durante una “Primavera sacra” dedicata ad Ares, dio greco della guerra (Marte per i Romani), erano andati alla conquista di un nuovo territorio in cui stabilirsi. Erano un popolo “totemico”, nel senso che avevano un’insegna votiva con un proprio simbolo, il lupo (hirpus), diverso da quello degli altri popoli. I Piceni, infatti, avevano adottato il picchio, mentre i Sabini e i Sanniti avevano scelto il toro. I Sanniti, si diceva prima, erano andati alla conquista dei territori dell’Italia centro-meridionale. E proprio su quei territori si consolidò un’isoglossa, l’area osca, cui appartiene il dialetto irpino, ben definita geograficamente, che parte dall’Abruzzo e arriva sino alla Calabria inglobando il Molise, il Sannio, l’Irpinia e la Lucania. Non solo i Romani, ma anche i dominatori successivi, i Bizantini, i Longobardi, i Normanni, gli Aragonesi, gli Angioini e i Borboni molte tracce lasciarono su quei territori. Pur con delle varianti locali, si potrebbe dire che il dialetto di queste aree è lo stesso, con forti apparentamenti con quelli delle aree vicine, vale a dire il napoletano, il salernitano, il dauno, il calabrese e anche il siciliano. Si potrebbe sostenere che buona parte dell’Italia meridionale, perché koinè, ha un dialetto identico, che in questi anni si è andato molto impoverendo nel lessico, al punto tale che gli addetti ai lavori n’avvertono il declino e ne temono la scomparsa. Per quello che io ho potuto verificare in quest’ultimo decennio, è molto più a rischio di scomparsa il dialetto nei piccoli paesi, dove gli anziani glottofoni si vanno riducendo notevolmente di numero, rispetto ai grossi centri dove il loro numero permane più consistente e funziona ancora da trasmettitore della parlata. Cominciai a scrivere in dialetto irpino nel 1987. Sino allora me n’ero astenuto, perché mi bastava che la mia creatività si manifestasse attraverso la poesia in lingua e le arti figurative.Pur essendo figlio di contadini, avevo tenuto nascosta e compressa la mia cultura arcaica, che avevo assorbito collaborando per venti anni ai lavori nei campi. Tuttavia alcuni aspetti di quella cultura, di tanto in tanto, facevano capolino nella mia produzione pittorica e in quella poetica in lingua. Tra l’altro, immaginavo che sarebbe stato molto difficile recuperare la civiltà contadina nei suoi molteplici aspetti, scriverla e interpretarla senza rischiare di travisarla o edulcorarla. E poi temevo che si sarebbe trattato di un’operazione faticosa e forse senza destinatari, perché, imbarcandomi in una simile impresa, avrei dovuto per forza di cose, essendo io un emigrato e lavorando in un ambito differente da quello delle discipline letterarie e antropologiche, circoscrivere la mia ricerca al mio solo paese d’origine, Montecalvo Irpino. Quando finalmente mi parve maturo il tempo di consentire alla mia vena creativa di liberarsi anche nella produzione dialettale, fu come se avessi stappato un vulcano che da qualche tempo cercava di eruttare. In pochi mesi produssi, in ortografia fonetica dialettale, un’infinità di testi, per un totale di oltre 5000 versi. Erano differenti tra loro per contenuto, musicalità e forma, e li ordinai poi per gruppi omogenei. Contenevano buona parte della mitologia locale e vicende d’uomini e donne, anche con contrapposizioni tra classi sociali e intolleranze, che travalicavano i ristretti confini del mio paese, per allargarsi a tutto il Meridione. La mia sorpresa fu che quei testi piacquero a diverse persone, amici ed esperti, e nel 1988 riuscii a pubblicare ad Avellino il libro Lo zio d’America. Quel libro l’avevo scritto a Trento, a Zell di Cognola, attingendo alla mia memoria. Il progetto iniziale era semplicissimo: riscrittura della cultura contadina adoperando il dialetto stretto, senza compromissioni né abbellimenti, e con la traduzione in lingua a fronte. Prima di pubblicarlo lo lessi a mia madre, Mariantonia Del Vecchio, contadina nata nel 1922, per verificarne attendibilità e fedeltà a quella cultura arcaica, di cui lei era ed è portatrice. In quel libro c’erano la sua parlata e una parte consistente della sua cultura. Io mi ero finalmente riappropriato della lingua degli antenati, il dialetto irpino parlato non solo da mia madre, ma prima di lei dai miei nonni e ancora prima dai bisnonni, nati verso la metà dell’Ottocento. Pubblicato Lo zio d’America, mi feci promotore, presso gli amministratori comunali del mio paese, di due proposte: l’esecuzione di alcuni murales, da parte di pittori muralisti, per l’abbellimento e il decoro del paese; l’istituzione di un Museo Intercomunale dei Mestieri e della Civiltà Contadina in Alta Irpinia. La prima proposta fu accolta. La seconda rimase inascoltata. Presumevo che, con questo libro, l’operazione di recupero potesse ritenersi conclusa. Mi sbagliavo. Quasi subito mi accorsi che ero solo all’inizio della riscoperta di un universo che stava scomparendo e così, per completare l’opera, sempre fedele al mio progetto iniziale, decisi che avrei operato per il futuro seguendo due percorsi paralleli e distinti: uno per la cultura orale e un altro per la riscrittura. Il primo di essi ha comportato per me una ricerca meticolosa sul territorio, per registrare e trascrivere fedelmente la cultura orale, vale a dire tutto il materiale folclorico che fosse possibile cogliere dalla viva voce degli informatori, gli anziani glottofoni, prima che scomparissero. Il secondo percorso è quello della riscrittura, sempre nel linguaggio degli informatori, di quanto non fosse compiutamente testimoniabile, quindi non registrabile, cioè il frammentario, il sommerso o il disperso della civiltà contadina. Iniziava così il mio lungo viaggio, anche molto indietro nel tempo, attraverso la memoria dei luoghi e delle persone, seguendo una parabola biologica della conoscenza, alla ricerca dell’essenza e autenticità dei valori perduti, sottovalutati fino a quel momento, e quasi scomparsi. Lentamente si sono venuti addensando e definendo l’identità collettiva di un’etnia, la sua storia non scritta e ciò che si potrebbe considerare come il suo immaginario collettivo. Un patrimonio vasto e straordinario, di una società minoritaria, su cui si sono accesi improvvisamente i riflettori. Eccezionale ed emblematico, per la varietà tematica di quanto è narrato con senso epico e semplicità. Ancora vivo e ardente, reale e fantastico, i suoi miti, i riti al di fuori della liturgia religiosa ufficiale, le credenze magiche, i suoi usi e costumi. Completo nella messa a fuoco dei differenti tipi umani, dei rapporti tra le persone e di quelli tra queste e le bestie, che condividevano lo stesso mondo, fatto di stenti e fatiche. Semplice e complesso allo stesso tempo. Tutto un vissuto tramandato da bocca ad orecchio, nella società patriarcale, prima che scadesse il tempo assegnatole dalla storia e si esaurisse la sua carica vitale. Ora il tutto è registrato o documentato in forma scritta. È stato, il mio, un vero e proprio salvataggio culturale, riguardante l’etnia irpina, poco o per nulla conosciuta all’esterno, la cui cultura, in tutto o in parte, è comune alle etnie delle aree geografiche contigue: abruzzese, molisana, sannitica, dauna, lucana e calabrese.Se è vero che in passato, la prospettiva di vita appariva ai contadini come una faticosa erta e la morte era onnipresente nella loro realtà, non mancavano tuttavia momenti di spensieratezza, divertimenti, passatempi, giochi di gruppo e ubriacature, passioni politiche, feste familiari e collettive che alleviavano i tanti crucci, le ristrettezze e i problemi esistenziali. È innegabile che molti dei rapporti tra le persone, nel mondo contadino arcaico e patriarcale, si basassero su atteggiamenti e comportamenti ritualizzati. Bisognava fare i conti con i miti, i tabù, le inibizioni, la superstizione, le credenze magiche e religiose, le presenze spiritiche, le usanze arcaiche, il parere del capo famiglia e degli anziani del clan, l’opinione e i pregiudizi degli appartenenti alla comunità. Non c’erano i media. Le notizie, anche quelle importanti, avevano una circolazione limitata e talvolta distorta. Ogni occasione d’incontro tra i componenti di una comunità serviva per parlare, scambiarsi pareri e conoscenze, divertirsi e il tutto ne favoriva la socializzazione.Anche i pellegrinaggi verso i santuari lontani, dove fino a metà Novecento ci si recava a piedi in gruppi familiari, aiutavano i contadini a distrarsi dalle dure fatiche quotidiane, a socializzare con gli altri, a vivere momenti di sincera devozione e ad evadere dal proprio ambiente, seppure solo per alcuni giorni. Al rientro, ciò che si era visto o vissuto personalmente, lo si raccontava in modo epico e romanzato, destando la curiosità e la meraviglia di chi non si era mosso dalla propria casa. Il materiale raccolto grazie agli informatori comprende quanto segue: un eccezionale poema ottocentesco cantato, Angelica, di 107 quartine; oltre cento canti montecalvesi classificati in una decina di gruppi; molte preghiere, qualcuna è medievale; tanti cunti antichi, molti sui santi, presentati con i difetti tipici degli umani; detti, filastrocche, indovinelli, maledizioni e aneddoti; toponimi e soprannomi; il glossario montecalvese con oltre 7.000 termini raccolti, di cui 40 sono parole inglesi dialettizzate ( ad es.: li rrélli, per indicare i binari, da rail way, ferrovia; affinzàni, recintare con rete metallica, da fence, recinto, steccato; il soprannome Ariòp, affibbiato ad un paesano stupido e sfaticato, cacciato dall’America, da to hurry up, lavorare, sbrigarsi, star su). Il materiale che ho prodotto, nello stesso linguaggio degli informatori, comprende i seguenti testi: oltre trecento Confessioni degli antenati, con racconti del proprio vissuto in un contesto presepiale-teatrale; cinque lunghi testi con sabba, janare, lupi mannari e folletti; oltre un centinaio di testi erotici, con un’atmosfera talvolta esilarante; poesie in dialetto. Il tutto è scritto in versi che complessivamente hanno superato il numero di 25.000, di cui meno di 7.000 quelli pubblicati finora. Si tratta di testi letterari e non saggi. Quelli che attengono alla mitologia sono in prosa ritmica e ricordano la cadenza della narrazione degli anziani, quando raccontavano i cunti ai ragazzini, attorno al caminetto (cimminìja). Per averne un’idea, bisogna rifarsi a Il Cantico delle Creature e ad altre composizioni umbre delle origini. La varietà lessicale, dei testi da me raccolti o scritti autonomamente, ha reso vivo il dialetto irpino e ora lo si può accostare alle altre lingue, sia all’italiano che alle lingue straniere. Ho evitato sistematicamente l’intrusione, nei miei testi, di potenziali neologismi.A parte, ho proceduto alla ricostruzione iconografica della veglia funebre e del pianto rituale, nell’ambito della rivisitazione di quei comportamenti che costituivano la gestione del lutto. Si tratta di una vera e propria biografia etnica per immagini. Si potrebbe parlare anche d’antropologia visiva. Parte di queste opere pittoriche fu esposta, nel 1993, in una mia mostra personale a Castel Drena (TN), che gettava un ponte tra la cultura appenninica e quella alpina. Ho creato nel tempo molti altri disegni e opere pittoriche ispirati a temi etnici. Nel suo insieme, tutto questo materiale si può considerare come un patrimonio pluridisciplinare. Potrebbe interessare discipline diverse come la glottologia, l’antropologia, l’archeologia sociale, l’etnomusicologia, la sociologia della classe contadina, la mitologia e la storia delle religioni. A proposito dell’Irpinia, nel 1994, l’etnomusicologo Roberto De Simone, nella sua introduzione a Fiabe campane, di cui aveva curato la ponderosa edizione per l’Einaudi, scriveva testualmente “l’immenso patrimonio favolistico dell’Irpinia, in cui meglio si è conservata la memoria dell’immaginario collettivo della Campania. E proprio in Alta Irpinia soggiornò a lungo Giambattista Basile, insignito del titolo di governatore di Montemarano, il quale dovette attingervi molto materiale per il suo Lo cunto de li cunti.” Se la supposizione del De Simone corrisponde a verità, si può affermare che parte della cultura irpina del Seicento è incapsulata in quel libro fantastico del barocco italiano, conosciuto anche come Pentamerone, scritto dal Basile, in dialetto napoletano, e edito postumo nel 1634. Questa mia opera di recupero, che ho portato avanti per anni, con sagacia e perseveranza, vuole porsi come una sorta di risarcimento culturale per il silenzio in cui l’Irpinia è rimasta per secoli, sconosciuta e invisibile all’esterno, nel cono d’ombra della storia. Dal 2002, sul sito  www.irpino.it  , per iniziativa di Alfonso Caccese, sono state dedicate, a questo mio recupero, oltre una ventina di pagine web. [Nativo]

Angelo Siciliano

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