Cultura,  Poesia

Commento alle poesie di Angelo Siciliano

[Ed. 24/12/2003] Il 16 marzo del 2001 rappresenta una data storica per la comunità di Montecalvo. Al suo patrimonio affettivo ritornano delle sacre icone che il tempo, con la complicità forse inconsapevole degli uomini, aveva avviluppato negli indefinibili veli dell’oblio.
Il cammino dello spirito spesso si accompagna, nella Storia, ai frutti che esso stesso produce nella contemplazione del Fine e dell’infinito percorso di un arcano che morde le nostre percezioni.
Ed è nell’ammirazione del costruito che, molte volte, riprendiamo il percorso interrotto.
Ma se all’arte si aggiunge il mistero, e se questo si esplicita nel richiamo sensibile di una morte sicura accompagnata da una inesprimibile sensazione di pace, e quindi di vita, diviene essa stessa cammino.
Durante il quale ci si imbratta e si cade.
Da vari anni Angelo Siciliano registra, con la penna e con il pennello, sensazioni attuali scaturenti da precedenti momenti di vita individuale e sociale.
E scava, esplorando rimasugli e meandri, nella memoria personale e collettiva, del vissuto suo e del popolo al quale appartiene.
Questa volta, però, è stato il tempo a donare, a lui e a noi, un pezzo intero della nostra storia.
Pulito nell’interezza delle sue ferite: una Mamma Bella, appartenuta ad un grande del nostro passato, con la veste imbrattata di fango.
Ma il fango che azzanghera la Vergine, è il nostro fango.
Che la inonda, l’affonda, la sottrae allo sguardo degli uomini.
Alla coscienza di un popolo che dimentica e muore.
Ed ella assorbe.
Anche la nostra morte.
Ha con sé le nostre strade, tortuose di secoli stretti, pregne delle acque guadate, dei calanchi freddi, o assolati, fruttate di olio e odorose di mandorle amare.
Assaltata dai tarli che, oltre la morte, rodono i nostri corpi, come prima le nostre coscienze.
Inappagate perché stanche, distrutte, sconsolate.
Non viene dal Paradiso perché è lì che ancora sta andando, appesantita dalle nostre valigie che il figlio, coi figli, sul suo braccio sostiene.
Al dolore della Croce, per la morte del suo primogenito, si aggiunge, così, lo spasimo universale di un parto foriero di gioie ancora nascoste.
E quando gli stenti di vite vissute, sudate, sconfitte, ottenebrano speranze di luce e coprono i richiami celesti, ricompare la Mamma.
Che non nasconde la Morte, serena mostrandola nello sguardo materno che ognuno vorrebbe incrociare la sera.
Nel crogiuolo del caos, che gli animi avviliti dei figli mortali affardella di buio, si accende la luce vitale e d’incanto svanisce la necessità del racconto liberatorio: ella sa tutto perché è stata sempre con noi, nascosta così bene che nessuno, neanche per idea, riusciva ad immaginarselo: tutto ha
udito, tutto ha sofferto, tutto ha compreso.
L’essenzialità del verso contiene la vastità del pensiero che di fronte a
Mamma Bella dalla faccia macchiata interrompe le sue trame per contemplarne quell’affascinante, indefinibile sorriso: ecco che svanisce l’affanno.
Ora tutto è più chiaro e in Pasqua dell’Abbondanza gli occhi della Vergine parlano: le macchie del suo viso, novello di secolari ferite che dissipa deserti di paure, possono ben rappresentare la trasfigurazione a cui l’uomo pellegrino, già viandante con lei tra filari di bosso e rosmarino odoroso,
tende ed aspira.
E i versi, silenziosamente rievocano le antiche processioni delle origini. I tributati fasti di un avversato popolo alla Mamma dal latte imperituro e al figlio per cui quello stesso latte fu concepito in eterno candore.
E poi, tre secoli di silenzio: di rughe scavate profonde.
Oggi, come ai tempi antichi, fiduciosi si sale alla Collegiata, là dove agli occhi degli uomini la Storia pareva avesse scritto fine.
Ma c’era una profezia da compiere: affidata ad un figlio di Casa Pirrotti che quella Sacra Immagine nel 1622 aveva voluto donare al culto del popolo.
Pompilio, il santo che, si disse, vivente parlò con i morti, e che, ancora bambino, aveva profetizzato il ritorno di quella statua, in quella Collegiata era stato battezzato il 30 settembre del 1710.
E nel sole di Pasqua, primizia di risurrezione, i doni della Mamma Bella dalla faccia macchiata. Le gialle violacciocche, fiorite tra le pietre del tempio, accompagnano l’ ascesa. L’arcano è svelato. Il Bimbo benedice e sorride. [Nativo

Giovanni Bosco Maria Cavalletti

 

MAMMA BELLA CU LA FACCI LORCIA

 S’ave prisintàta, nu bèllu juórnu,
la Madonna: la facci lórcia,
tutta chjéna di macchji,
nu pócu carulàta.

Ma l’uócchji suji so’ cquiddri
di na mamma ca ògnunu
vuléss truvàni quann’a la sera
s’arritìra stancu, strutt’e afflìttu.

 Unu pènza: « Ma da ‘ndó véne
‘sta Madonna? Da lu paravìsu no,
éja tutt’affardillàta, binidica!

Li bbìji ch’ave camminàtu, li rripi,
li uaddrùni, li ghjiumàri ch’ave passàtu,
lu mantu mmalitrattàtu,
la vèst’azzangàta di lóta, lu Crijatùru
‘mpisantùtu ‘mbrazza…»

Ma a ghjì a bbidé, Quéddra stéva
‘mmiézz’a nnuji, ammucciàta
accussì bbónna ca nisciùnu,
mancu pi mmacinazióne,
ci jév’a ppinzà!

 Tutt’ave sintùtu
tutt’ave patùtu
tutt’ave capìtu.
Nuji ‘nnì l’ìma
accuntà niénti!

MAMMA BELLA DALLA FACCIA MACCHIATA

Si è presentata, un bel dì,
la Madonna: la faccia sporca,
tutta cosparsa di macchie,
un po’ tarlata.

Ma i suoi occhi sono quelli
di una madre che ciascuno
vorrebbe incrociare la sera quando
si ritira stanco, distrutto e sconsolato.

 Uno si chiede: «Ma da dove arriva
questa Madonna? Dal paradiso no,
così carica, Dio la benedica!

Le vie che ha percorso, i calanchi,
i valloni, le fiumare che ha guadato,
il mantello sdrucito,
la veste imbrattata di fango, il Bambinello
che le si è appesantito in braccio…»

Ma si viene a scoprire che Lei era
in mezzo a noi, nascosta
così bene che nessuno,
neanche per idea,
riusciva ad immaginarselo!

 Tutto ha udito
tutto ha sofferto
tutto ha compreso.
Noi non dobbiamo
confidarle nulla!

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