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EMIGRAZIONE TRAPPETARA

Mario Corcetto

Abitanti del Trappeto negli anni ’70 del Novecento – Foto di Mario Sorrentino

Il fenomeno migratorio, conseguenza della grave situazione economica di tutto il Meridione, interessò massicciamente Montecalvo e, segnatamente, il Trappeto quale suo principale bacino. Dalla fine del secolo XIX agli anni sessante/settanta del secolo scorso non è esagerato dire che ci fu un vero e proprio esodo verso il Nuovo Mondo, prima, e verso l’Europa del Nord, dopo. Ancora oggi i Paesi ospitanti vedono Trappetari di terza/quarta generazione, oramai pienamente integrati, tra la loro forza lavoro e, molto spesso, tra i quadri dirigenti.
Resa necessaria da fattori esogeni, sui quali gli umili non avevano potuto incidere in alcun modo e nei quali non avevano nessuna responsabilità, l’emigrazione, complice la connaturata abitudine al sacrificio dei Trappetari, fu percepita come una soluzione ai molti mali che affliggevano la popolazione più povera del quartiere. Bene inatteso ed insperato che riscattava dalla miseria chi si trovava indietro per condizione imposta, piuttosto che per difetto di capacità o volontà.
Dal punto di vista sociale, l’emigrazione fu un eccezionale opportunità che i Trappetari seppero cogliere appieno. Uno strumento che decretò il definitivo ribaltamento dell’ordine sociale sino ad allora subito e che traghettò la classe contadina verso livelli di uguaglianza e dignità impensabili ed impensati fino ad allora.
Generalmente, i primi a partire erano gli uomini, successivamente venivano raggiunti dalle mogli, quando la situazione in loco si era consolidata ed i permessi di soggiorno consentivano il ricongiungimento con il coniuge. La Svizzera, per esempio, aveva tre tipi di permesso di soggiorno: A, B e C. Il primo, detto anche stagionale, consentiva all’emigrante in possesso di regolare contratto di lavoro, di risiedere e lavorare sul territorio elvetico per massimo nove mesi all’anno, senza la possibilità di portare al seguito la famiglia. Erano consentite visite dei congiunti, ma soltanto come turisti e per massimo tre mesi all’anno. Il permesso di tipo B, ottenibile dopo quattro anni da stagionale, consentiva all’emigrante di lavorare per tutto l’anno e di portare la famiglia al seguito. Il permesso di tipo C, che veniva concesso dopo cinque anni dall’ottenimento del B, aggiungeva a quest’ultimo la facoltà per il suo possessore di aprire un’attività commerciale o artigianale propria. In ogni caso, per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, oltre agli anni ed al gradimento della ditta, insito nel rinnovo del contratto di lavoro, veniva considerato anche il comportamento nella vita privata dell’emigrante: i cittadini svizzeri erano molto solleciti a segnalare alla polizia ogni comportamento scorretto tenuto dagli ospiti.
Non era raro, tuttavia, che, per scelta consapevole della coppia, la moglie restasse a Montecalvo a crescere la prole e che solo il marito si trasferisse, optando per una migrazione stagionale. Egli passava a casa i mesi rigidi dell’inverno ed il mese di agosto. Originando, così, quel fenomeno sociale delle cosiddette vedove bianche, che traghettò buona parte della società trappetara da una famiglia di tipo patriarcale ad una di tipo matriarcale, generando vere e proprie storture comportamentali con riflessi di non poco conto sul comune sentire. Si può pensare che mentre il padre, che notoriamente incarnava in seno alla famiglia l’autorità, orientava l’educazione dei figli verso il prioritario rispetto delle regole sociali, anche a costo di sacrificare i propri interessi. Le mamme, invece, avevano la tendenza a salvaguardare gli interessi diretti dei figli, se necessario anche a scapito del bene comune. Figlia di questo atteggiamento delle madri potrebbe essere l’abitudine a ricercare la “raccomandazione” per aggiudicarsi un lavoro o un qualsiasi altro beneficio.
Quando a partire era la coppia, non era raro che gli emigranti lasciassero al paese i bambini piccoli che, nel luogo di lavoro avrebbero rappresentato un problema: bisognava badare a loro e ciò avrebbe impedito alla moglie di lavorare, oppure avrebbe comportato esborsi finanziari per pagare chi li accudisse. Entrambe le soluzioni avevano un costo che gli emigranti non volevano o non potevano sobbarcarsi. Allora, molto spesso, prima dell’età scolare, i bambini rimanevano affidati ai nonni o agli zii che li allevavano con ogni cura ed attenzione possibili. Al momento che i figli dovevano iniziare la scuola, veniva riconsiderato il futuro della famiglia. O i genitori, che nel frattempo avevano accumulato qualche risparmio, rientravano e avviavano una loro attività al paese, perlopiù artigianale, o rientrava la sola madre ed il padre continuava la vita da emigrante stagionale
da solo, oppure i figli seguivano i genitori e la famiglia, finalmente riunita, tentava il totale inserimento nel luogo ospitante. Tale processo integrativo subiva la svolta decisiva quando i figli, frequentando le scuole pubbliche estere, perdevano la caratterizzazione originaria e, padroni della lingua e delle usanze del luogo, diventavano indistinguibili dai nativi.
Quando gli emigranti tornavano al Trappeto per le vacanze, era frequente ascoltare dialoghi bilingue: i bambini si esprimevano nella lingua straniera appresa, i genitori, per riguardo agli astanti, rispondevano in dialetto montecalvese. I nonni ascoltavano frastornati, cercando di intuire, dalle risposte date in dialetto e dall’intonazione delle voci, l’intera articolazione del dialogo. Non senza ammirare la padronanza della lingua straniera da parte dei propri figli. E senza mancare di inorgoglirsi agli occhi degli occasionali ascoltatori del quartiere. Questa capacità di esprimersi in una lingua straniera rappresentava quasi un fattore di elevazione sociale. Era un po’ la risposta contadina al latinorum con cui venivano sistematicamente imbrogliati dai notabili del luogo, costretti loro, questa volta, a subire la parte di chi non capisce.
Lasciare i bambini al paese sotto la responsabilità dei nonni o degli zii, era una pratica gravosa, foriera di indicibili disagi e dispiaceri per tutti. Per i bambini, che percepivano forte il senso di abbandono da parte dei genitori. Per i genitori, che partivano con forti sensi di colpa. Per i nonni o gli zii, scippati della gioia spensierata di godersi i nipoti e caricati di fortissime responsabilità che investivano sia il ruolo educativo, sia la sicurezza stessa dei bambini.
Una volta l’intero quartiere del Trappeto fu partecipe di una disgrazia occorsa nella casa materna di un emigrante. I giovani genitori erano partiti per la Svizzera ed avevano affidato alla nonna e alla zia non sposata la loro bambina di pochi anni. Sia la nonna, sia la zia si prendevano cura della piccola con sincero amore e tanta delicatezza, per rendere serena la vita della bambina e per alleggerire lo strazio dei genitori a cui mancava un pezzo di cuore. La fanciulla cresceva tranquilla e mostrava un’intelligenza spigliata: la zia l’aveva fatta ritrarre dal fotografo del paese nell’atto di leggere una lettera spedita dai suoi genitori. Ovviamente la bambina ancora non ne era capace, non andava ancora a scuola, ma la postura e l’espressione erano tali da rendere verosimile la scena.
Un giorno, dopo pranzo, mentre la zia attendeva alle faccende domestiche, la nonna si appisolò sulla sedia e non si accorse che la bambina, che stava giocando in cucina, aveva preso dalla tasca del suo grembiule la confezione di un potente farmaco per il cuore. Attratta dal colore delle pillole e credendole caramelle, la piccola ne ingerì una buona dose. Quando la zia si accorse dell’accaduto era oramai tardi: la piccola aveva già ingoiato e a nulla servirono i tentativi di farle dar di stomaco per espellere il farmaco. Non rimaneva che correre dal medico e non trovando questi in casa, la zia con la bimba in braccio si precipitò dalla farmacista del paese che, sottovalutando evidentemente la questione, la rassicurò dicendole che, al massimo, la bambina avrebbe dormito un po’ di più. Tornata a casa un po’ rincuorata, la zia continuò a tenere d’occhio la bambina per controllare che non avesse manifestazioni sospette. Infatti, poco dopo vide che la piccola cominciava a perdere i sensi e ad emettere schiuma dalla bocca. Presa in braccio la bambina, la zia cominciò a correre per il quartiere in preda alla disperazione. Nell’inutile ricerca di un aiuto che evitasse il dramma che si stava consumando: tutti i vicini accorsero ma non potettero che assistere inermi a quanto stava accadendo. Proprio in quel momento stava arrivando da Firenze un parente, che, capita la situazione, mise subito in macchina la piccola e la zia per correre alla volta di Benevento a cercare aiuto nel locale ospedale. Non erano ancora giunti alla stazione ferroviaria che un urlo straziante della zia annunciò al mondo la fine della piccola. Il corpicino ormai senza vita giaceva abbandonato tra le braccia della zia: più pesante di qualsiasi macigno! Non restava che tornare a casa… ed informare dell’accaduto i genitori. Non è difficile immaginare quanto sarà stata difficile quella telefonata. Quanto lungo sarà stato il viaggio di ritorno per i genitori. Quanto temuto il loro arrivo da chi stava a Montecalvo…
Sulla tomba della bambina fu messa la foto di lei che leggeva la lettera dei genitori. E non ci fu giorno, negli anni a venire, che la foto non fosse bagnata dalle lacrime della povera zia. Quest’ultima, purtroppo, non morì di vecchiaia.
Un altro fatto triste vissuto al quartiere, di cui io ho memoria, fu la morte su un cantiere svizzero di un casalborese di nome Giovanni, promesso sposo di Angela, una ragazza Trappetara. Pochi mesi
prima del matrimonio religioso, già celebrato civilmente, il giovane stava lavorando su un cantiere nei pressi di Losanna, come operatore su una pala meccanica. Inavvertitamente, durante le operazioni di scavo, tranciò i fili interrati dell’alta tensione e rimase folgorato all’istante. Grande fu lo sgomento al quartiere e, sebbene il giovane non fosse del posto, i Trappetari lo adottarono e, stringendosi alla povera vedova, gli resero lo stesso sentito omaggio riservato ai loro figli.
Non meno angosciante fu l’arrivo, anche questa volta dalla Svizzera, di un’intera famiglia vittima di un avvelenamento da funghi. Quattro bare, marito, moglie e due bambini, sfilarono per il paese. Vista l’eccezionalità della disgrazia, il rito funebre fu presieduto dall’allora Arcivescovo di Benevento, Mons. Raffaele CALABRIA.
In ogni caso, queste morti sembravano avere un dignità diversa. L’estremo viaggio era accompagnato in forma più solenne ed il cordoglio percepito e manifestato era maggiore: quasi come se si volesse rendere al defunto tutte le attenzioni non ricevute in punto di morte per la lontananza da ogni affetto. L’empatia rendeva i Trappetari un solo corpo, che percepiva la dipartita di un proprio membro come una mutilazione. Non di rado ad elevare la solennità del rito contribuiva anche il dettaglio: una bara di legno pregiato, maggiore qualità e quantità di fiori, carri funebri moderni, lapidi di maggior pregevolezza…
Purtroppo, la morte violenta è stata troppo spesso compagna degli emigranti Trappetari: dagli incidenti sul lavoro, agli annegamenti nei laghi svizzeri, agli incidenti stradali, tantissime sono state le morti premature. E troppe sono state le invalidità che hanno segnato tante famiglie della comunità. Senza esagerare, si potrebbe perfino considerare il Trappeto un quartiere per lunghissimo tempo in guerra, con i propri figli al “fronte”, i propri Caduti ed i propri mutilati. E con le proprie medaglie: una foto in bianco e nero del figlio defunto, incastonata in un ovale pendaglio d’oro, appeso al collo o appuntato sulla camicetta della madre. E forse le sofferenze delle madri erano proprio assimilabili a quelle delle mamme dei soldati partiti per la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. La differenza, forse, era nella percezione delle motivazioni alla base delle partenze: un fine scelto e direttamente vantaggioso, piuttosto che subite decisioni di governanti sconosciuti, peraltro per cause di difficile comprensione, oltre che di indiretta e dubbia utilità.

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