Storie di Emigrati
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IL PICCOLO FATTORINO
Mario Corcetto
[Edito 15/05/2005] “Prudenza, perché ci sono le targhe bianche!” ricordo di aver sentito dire in un lontano dicembre degli anni settanta al fattorino rivolto all’autista del pullman che ci riportava da Ariano. Egli voleva con questo significare che bisognava guidare l’autobus con maggiore attenzione del solito perché erano giunti in paese, per le vacanze di Natale, gli emigranti dalla Svizzera e dalla Germania, le cui macchine avevano appunto le targhe di colore bianco. Era necessario fare attenzione perché, secondo il fattorino, il pericolo era incombente per la genetica incapacità dei nostri concittadini di guidare una macchina!
Quelle poche stupide parole, che provocarono una sguaiata risata dell’autista e di alcuni presenti, denotavano un tale disprezzo per gli emigranti che a me, quindicenne figlio di emigrante, ferì profondamente. Quel senso di superiorità che serpeggiava in chi era rimasto a casa propria, non di rado a costo di vergognosi compromessi con la propria coscienza, svenduta a chi per interessi di bottega faceva mercimonio della cosa pubblica, mortificava profondamente la sensibilità di chi, escluso a priori da ogni leale competizione, doveva anche sostenere gli oneri di quel sistema clientelare.
L’episodio del fattorino mi è tornato alla mente di recente in occasione di un mio breve soggiorno in Svizzera. Mentre mi aggiravo per il centro del paesino in cui ero ospite vedevo le vetrine addobbate come da noi, con gli stessi prodotti, delle stesse marche, pubblicizzati con gli stessi slogan. Da uno sportello bancario ho potuto prelevare contante con la mia carta bancomat. Le macchine in giro erano uguali a quelle in circolazione da noi, anche i colori delle targhe ora si assomigliavano. I prodotti in vendita nei supermercati erano gli stessi reperibili da noi. I telefoni cellulari usati dalla gente erano delle stesse marche nostre, le suonerie identiche. Molte insegne dei negozi erano scritte in inglese, le altre ovviamente in francese: entrambe le lingue più o meno conosciute, perlomeno nelle parole essenziali, anche da chi ha frequentato uno dei “premiati diplomifici” arianesi. I ragazzi erano in jeans e scarpe da ginnastica, come da noi. Tutto l’insieme contribuiva ad annullare quel senso di disagio che solitamente accompagna chi si trova fuori dal proprio ambiente. Mi sentivo come se fossi in giro per una qualsiasi città italiana.
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Ogni anno torna a Montecalvo per riabbracciare mamma Rosa
[Ed. 20/01/2008] Montecalvo Irpino AV – La storia della famiglia Pizzillo scorre tra le dita della signora Fiorella, settima e ultima figlia di Filippo e Rosa, che sfogliano gli album fotografici e i ricordi di una generazione in bianco e nero. Lei è nata vent’anni dopo Antonio, il fratello maggiore andato via di casa che era soltanto un ragazzino, eppure parla di lui come se non fosse mai partito, come se fosse rimasto sempre qui, a Montecalvo. Invece con Antonio che dal 1967 vive in Guatemala sono poi emigrati, uno alla volta, anche gli altri fratelli. Solo Fiorella non ha lasciato il paese e mamma Rosa, che ha quasi novant’anni, e vive ancora nella casa di campagna dove con l’aiuto di papà Filippo, deceduto nell’82, ha allevato la numerosa prole. «L’affetto che mi lega ad Antonio è indescrivibile – ha esclamato la più piccola dei Pizzillo – E pensare che tra me e lui c’è una notevole differenza d’età, eppoi è stato sempre in giro, sempre in viaggio, eppure il nostro rapporto è così affettuoso e saldo. Provo una sincera ammirazione per la tenacia che ha. Mette l’anima in tutto quello che fa». Hanno gli stessi occhi, gli stessi lineamenti, Fiorella e Antonio, che sono poi quelli ereditati dalla signora Rosa che in Guatemala è stata ben cinque volte. Anche lo spirito avventuriero è lo stesso. «Tra tutti i figli che ho – ha affermato la matriarca dei Pizzillo – Antonio è sicuramente quello più legato a me. È un mammone. Mi ha detto che d’ora in poi tornerà spesso al paese perchè vuole stare più tempo vicino alla sua mamma. Un modo per aggirare le distanze e recuperare quel tempo trascorso in fretta, e altrove, in un posto tanto lontano che si fatica pure a trovare su una mappa geografica tanto è piccolo e nascosto in quella sottile lingua di terra che unisce i due continenti americani». E lì che il costruttore Antonio Pizzillo risiede dal giorno del matrimonio con la signora Celia Oliveiro, madre dei suoi due figli, Fabrizio e Alessandro. Quando sfiora le foto di quelle nozze esotiche e solitarie gli occhi chiari di Fiorella si rigano di lacrime. Le vite parallele dei Pizzillo si incontrano a Montecalvo almeno una volta l’anno. Allora tutta la famiglia, sparsa per l’Italia e per il mondo, si ritrova attorno all’arzilla mamma Rosa che benedice figli, nipoti e pronipoti. Nel cuore e nelle parole della mamma oggi c’è soprattutto quel figlio che sta così lontano, quel primogenito che lasciò gli studi per aiutare la famiglia, per portare presto i soldi a casa. «Mio cognato è tenace e determinato – ha affermato Luigi Zarrillo, professore di francese – È un irpino caparbio, e per questo, ma anche per la sua straordinaria intraprendenza negli affari, che ha ricevuto molti riconoscimenti in Guatemala». [Nativo]
Il Mattino
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Ha costruito in Guatemala residence
Barbara Ciarcia
Antonio Pizzillo [Ed. 20/01/2008] Nel Paese dell’eterna primavera Antonio Pizzillo ha scelto di passare le stagioni della sua vita. In Guatemala è finito per un inciampo del caso, e per amore della moglie Celia. Per lavoro ha girato mezzo mondo. Nella metà degli anni sessanta, durante un viaggio, incontra quella ragazza dal sangue misto, figlia di un italiano e di una panamense, che cambierà il percorso della sua esistenza. Con lei progetta il suo futuro in una terra esotica e ancora ignota. La parabola di un uomo che si è fatto da solo, e che ha fatto e rifatto il piccolo Stato dell’istmo, inizia però lontano da qui, in una contrada di Montecalvo irpino. Antonio ha tredici anni, e le idee già chiare, quando va via di casa e saluta mamma Rosa promettendole di tornare presto e con tanti soldi. Papà Filippo, agiato proprietario terriero e valoroso soldato al fronte, è stupito dal coraggio di quel primo figlio che non ha visto crescere, ma non si oppone e lo lascia andare. A quel tempo la terra rendeva poco, meglio il mare: e così Antonio partì marinaio su una nave per nove lunghi anni. Seguì il congedo dalla Marina italiana, e di nuovo le faticose trasferte su terraferma come tecnico specializzato per conto dell’Italsider, prima a Genova e a Taranto, poi in Africa per la Snam. Antonio riprese a viaggiare come un nomade fino al giorno dell’incontro fatale con la fascinosa studentessa che lo ha condotto alla scoperta e alla conquista del Guatemala. Il paese delle meraviglie presto fu scosso e rivoltato da sanguinari e spregiudicati dittatori che hanno ridotto la popolazione alla miseria, ma per fortuna non Antonio Pizzillo che è riuscito comunque a realizzare la sua sconfinata opera imprenditoriale. I progetti in cantiere per un nuovo e dinamico Guatemala gli hanno salvato la vita, e lo hanno messo al riparo dai pericoli e dai regimi che pure si sono susseguiti negli ultimi decenni nello Stato amerindo. Lui pertanto, in mezzo alle turbolenze, ha tirato sù villaggi residenziali sulla costa del Pacifico, e li ha battezzati con i nomi di Montecalvo, Buonalbergo, Casalbore. I paesi della sua infanzia, della sua valle, quella del Miscano, che pure ha picchi e crinali morbidi come le sagome degli altipiani latinoamericani. E ancora Pizzillo ha creato una grande scuola privata nella zona residenziale di Ciudad de Guatemala, la capitale del Paese, gestita dalla consorte e dal figlio Alessandro, e centri di distribuzione commerciale, motel, aziende: in una sola parola ha dato lavoro a centinaia e centinaia di guatemaltechi. «Mi ritengo certo un fortunato – sostiene Pizzillo, imprenditore simpatico e vulcanico – ma ho sempre lavorato moltissimo per ottenere risultati gratificanti. Non mi reputo un ricco e ozioso milionario, piuttosto un onesto e infaticabile operaio. La fortuna poi va inseguita e coltivata, specie in un Paese come il Guatemala che ha avuto alterne fortune sociali e politiche». Mentre lo Stato faceva i conti col suo passato e ritrovava la sua giusta forma di governo Antonio Pizzillo produceva, e continua a produrre, ricchezza per sè e per tanti indios che lavorano alle sue dipendenze. [Nativo]
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STEFANIA LONGO: ”SONO FIERA DI ESSERE ITALIANA”
Alfonso Caccese
[Ed. 00/00/0000] Caro Alfonso, mi chiamo Stefania Longo, ho 22 anni e sono italoamericana di origine irpina (da Guardia dei Lombardi). Sono anche studiosa dell’Irpinia, nel campo di letteratura, avendo scritto la mia tesi di laurea sulla letteratura dell’Irpinia dopo il terremoto del 1980. Sono italianista di professione ma preferisco concentrarmi solo sull’Irpinia perché i miei legami con la zona– pur non essendoci mai stata– sono fortissimi.
Sono un’amica di Angelo Siciliano, il quale mi ha segnalato il tuo sito che trovo meraviglioso perché mi permette di sapere chi sono gli altri studiosi dell’Irpinia!
Sto provando a procurarmi una copia del libro di Louis A. De Furia, potresti dirmi dove l’avesti trovato? Grazie!
Tanti saluti ed a presto! StefaniaIl terremoto dell’Irpinia degli anni ’80 è ancora ben presente nella mente di chi ha vissuto quella tragedia. A distanza di tanti anni e di tanti chilometri, la storia rivive nella tesi di laurea di una brillante italoamericana che fa onore alla terra d’origine dei propri nonni. Stefania Longo, nata e cresciuta a Scranton (in Pennsylvania), si è recentemente laureata discutendo una tesi sull’Irpinia, sulla letteratura autoctona e meridionale in genere. Quanto prima Stefania insegnerà italianistica alla prestigiosa Università Cattolica di Washington. Ho avuto il piacere di intervistarla.