ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Balli di tradizione

La Tarantella montecalvese

Antonio Cardillo – Francesco Cardinale

La nostra tarantella ha avuto il suo massimo sviluppo nell’epoca caratterizzata dalla diffusione dell’organetto, vale a dire, all’incirca, alla fine dell’Ottocento e nella prima parte del Novecento, sino al periodo immediatamente precedente l’avvento della televisione, intorno al 1950. Le circostanze nelle quali veniva eseguita erano diverse; durante i matrimoni, ma anche nei contesti agro-pastorali, ove se ne riscontrano almeno tre: la festa sull’aia in occasione della trebbiatura[1], l’uccisione del maiale e il capocanale[2]. In paese venivano organizzate festicciole[3] il cui scopo non era solo lo svago dei residenti ma anche quello di far conoscere tra loro i ragazzi e le ragazze in età da matrimonio. Solitamente, la tarantella rallegrava il clima e invogliava i più inibiti a unirsi alla festa. L’innamorato di turno, dopo aver dichiarato il suo amore con la serenata, rivolgendosi ai musici, concludeva: Hoj, sunatò’, quantu suni’ bellu! Famme ‘nu giru d’ tarantella![4]

     Negli ultimi otto, nove anni, abbiamo catalogato e raccolto, nel corso di registrazioni presso privati, un cospicuo numero di tarantelle cosiddette montecalvesi, che ci consentono una disamina, seppur approssimativa, della tematica. Lasciamo, come è giusto che sia, l’approfondimento metodico a chi ha più esperienza e titoli di noi. Ascoltando il materiale raccolto si evince sin da subito che, pur riconoscendo alla tarantella nostrana una sorta di originalità e una propria identità abbastanza definita, le composizioni repertate si differenziano, tuttavia, in modo considerevole. Va ricordato, ad ogni modo, che le varie versioni conservano una certa continuità sonora, grazie alla presenza di stili melodici preesistenti, elaborati con variazioni armoniche legate alla creatività dell’esecutore. Si noterà, scorrendo il repertorio, che l’esecuzione dello stesso brano a volte è differente, anche quando il lasso di tempo intercorso tra le registrazioni è poco considerevole; il che appare persino ovvio, trattandosi di esecutori che suonano a orecchio.

     Queste manifestazioni del costume e della tradizione sono rimaste prive di documentazione oggettiva fino gli anni ’50 del secolo scorso, quando si diffuse il magnetofono, o registratore a nastro. Alan Lomax fu il primo a registrarla, effettuando anche degli scatti fotografici mentre veniva suonata e ballata.  A eseguire il brano, in quell’occasione, fu il fisarmonicista Domenico Iorillo.

     Lomax registrò in Campania e in tutta l’Italia meridionale diversi tipi di tarantelle. E grazie a questo suo importante lavoro, si è potuto fissare nel tempo l’evolversi dello stile della tarantella e dei numerosi sottogeneri che col tempo hanno assunto una denominazione propria: pizzica pizzica, ballo sul tamburo (tammuriata), saltarella e via discorrendo.

     Per quanto riguarda la nostra tarantella, gli etnomusicologi e gli studiosi della materia, propendono per inserirla nel genere della ballarella, o anche zumparella, una sorta di mescolanza tra il salterello abruzzese e la tarantella classica napoletana, e comunque ad identificare una commistione di suoni provenienti da contesti diversi. La ricerca sul campo in merito a questo stile compositivo-interpretativo, ha portato a delinearne l’area territoriale di diffusione, che è “…collocabile nell’alto Casertano, nella Ciociaria e lungo la dorsale appenninica”[5]. Peraltro la tarantella montecalvese, non essendo relazionata a un evento ben definito, come invece, ad esempio, quella di Montemarano, legata al tradizionale Carnevale, non ha sviluppato, nel tempo, una sua struttura caratteristica, tale da consentire di distinguerla al primo ascolto.

     Volendo presentare la storia della tarantella nostrana, dobbiamo innanzitutto dividere l’aspetto musicale dal ballo. Una delle ipotesi circa la nascita della tarantella montecalvese è legata allo strumento col quale veniva eseguita. L’organetto e la fisarmonica, pur appartenendo entrambi alla famiglia degli aerofoni, strumenti nei quali il flusso d’aria è generato da un mantice che attiva delle ance in metallo, si differenziano in maniera evidente perché il primo utilizza la scala diatonica, mentre la fisarmonica moderna utilizza la scala cromatica. L’organetto è uno strumento che suona in tonalità maggiore, mentre la tarantella classica in tonalità minore. Per questo motivo è lecito immaginare che i suonatori di organetto, dopo aver sentito l’esecuzione della tarantella, nel desiderio di replicarla con il proprio strumento, si siano trovati nella difficoltà oggettiva di riprodurre correttamente alcune sequenze di note tipiche della tonalità minore che, di fatto, non sono riproducibili con l’organetto. Per cui di volta in volta, in fase di esecuzione, i suonatori più creativi e dotati di un buon orecchio musicale sopperivano a quella limitazione eseguendo giri armonici che si adattassero quanto più possibile alla melodia eseguita in tonalità minore da strumenti adatti allo scopo, come appunto la fisarmonica. Non è azzardato, dunque, ipotizzare che la tarantella montecalvese possa essere il frutto dell’adattamento della tarantella classica eseguita con l’organetto diatonico.

     La tarantella montecalvese, diversamente dalle altre, è spoglia dal punto di vista strumentale. Il più delle volte, l’esecuzione è demandata al solo organetto diatonico. Nel tempo, per dare spessore alle esecuzioni si sono aggiunte le castagnette. Queste erano e sono tuttora usate dai danzatori. Prima che il loro uso si diffondesse, si rimediava con l’utilizzo del battito delle mani accompagnato da gemiti e fischiettii prodotti dai ballerini, nel mentre il musicista arricchiva la propria performance con brevi accenni verbali, per lo più monosillabici, tipo: Uè! Uè! Uè!  (in uso anche nella tammurriata con espressioni e cadenze ritmiche diverse[6]), inframezzati da brevi canti monostrofici, ripetuti all’unisono, come ad esempio: Tonnanella e tonnanà, come la vuoti tonna la (v)unnella, Qua s’abballa, qua si sfonna.

     Se prima abbiamo accostato la tarantella montecalvese a quella classica napoletana, ipotizzando anche le dinamiche evolutive musicali, ora ci soffermeremo sulle influenze che potrebbe aver ricevuto dai territori che si affacciano sull’Adriatico. Il termine con il quale da noi ci si riferisce all’organetto, ovvero Abbruzzisiéllu, già di per sé ne denota appunto la provenienza regionale. Lo strumento, infatti, era usato in quei luoghi per l’esecuzione del salterello (detto anche salterella). Pensiamo alla Transumanza[7], solitamente collegata erroneamente alla sola pratica durante la quale avveniva il passaggio di centinaia di capi di bestiame nelle nostre terre, che pure ne era il motivo fondante. In realtà è lecito ipotizzare che la Transumanza fosse anche un’importante un’occasione di scambio culturale (e quindi anche di usanze tradizionali) oltre che di scambio di mercanzie, che non erano limitate solo ai prodotti caseari e alla lana[8]

       In realtà, le affinità con il salterello sono evidenti sia in ambito coreutico che musicale, e un esempio ne è la registrazione effettuata a Civitella Messer Raimondo da Diego Carpitella[9] durante la permanenza a Chieti negli anni ’70. Il brano, se eseguito a una velocità leggermente ridotta, mostra una straordinaria similitudine con il brano registrato da Alan Lomax e con tutte le altre esecuzioni che i nostri organettisti chiamano Tarantella montecalvese.

     Come tutti i balli del genere, anche la tarantella montecalvese aveva una funzione liberatoria e generava una sensazione inebriante; non è un caso che, spesso, il ballo era associato al vino, ragione per la quale le danze solitamente si aprivano all’apice della festa. Nelle nostre zone la tarantella, montecalvese o non, come genere musicale deve il suo successo al ballo ad esso associato, che viene eseguito con il costume della pacchiana (nel nostro caso), che ben si abbina al ritmo sostenuto e incessante della danza. Il ballo[10] della tarantella montecalvese, in origine, più che in tempi recenti, era disinibitorio e liberatorio, sconnesso e disallineato. A volte veniva interpretato da una sola persona, un uomo o una donna[11], al centro di un cerchio, mentre gli altri battevano le mani, specie nelle cerimonie, magari per smaltire abbondanti abbuffate e qualche bicchiere di vino di troppo. Andando a ritroso nel tempo, è possibile cercarne tracce nelle funzioni pagane del passato, da sempre permeate di edonismo, con evidenti allegorie e richiami ai riti dionisiaci. Non possiamo non ricondurre alcune caratteristiche della coreutica della tarantella ai riti orgiastici praticati dai Longobardi.[12]   


[1]Alla trebbiatura solitamente seguiva un succulento pranzo di fine lavoro. Verso sera, infine, la festa trovava il suo naturale sbocco nei canti e nei balli eseguiti con la fisarmonica e con l’organetto che dava il via ad un genuino e sincero momento di agape tra gli astanti.

[2] Il capocanale è una festa che segna la fine di una stagione di lavori in campagna

[3] Le feste da ballo casalinghe, lu cuciniello e lu cucuzzaru in La memoria restituita…op. cit. pag. 163/164

[4] Dal docufilm di Giuseppe Antonio La Porta Dio e Padreterno – 1992, Montecalvo Irp. – Distribuito in proprio.

[5] Brunetto W., Piccolo vocabolario etnomusicologico, Squilibri, 2012, Roma – pag. 25

[6] De Simone, R., Son sei sorelle – Rituali e canti nella tradizione in Campania, Squilibri, 2010, Roma – pag. 25.

[7] Il nostro territorio è attraversato dal (Regio) tratturo Pescasseroli-Candela.

[8] Ancor oggi i nomi dei luoghi, disseminati lungo il percorso, dai transumanti, riecheggiano tra i locali quasi a far sì che il tempo non cancelli il ricordo del loro passaggio: Uagnaturu, tratto del fiume nel quale le pecore, attraversandolo, venivano lavate. Scannaturu, lì erano destinate le pecore da macello, Tre fontane, in Greci (AV), nel maestoso complesso rurale, ancora oggi ben delineato, vi era la stalla delle pecore partorienti.

[9] Carpitella D., Musiche tradizionali in Abruzzo a cura di Domenico Di Virgilio, Squilibri, 2010, Roma – pag. 89.

[10]Musica e danza hanno, nel corso del tempo, viaggiato quasi certamente su canali divergenti fino a congiungersi in epoca recente.

[11] Per accentrare l’attenzione, alcune volte, questi, mettevano sul capo una bottiglia

[12] Si confronti l’illustrazione in: Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894, Enrico Isernia, volume primo, pag. 214

[Bibliografia di riferimento] [A. Cardillo – F. Cardinale Alan Lomax. Il passaggio a Montecalvo Irpino Terebinto Edizioni, Avellino, 2021]

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