ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI

  • ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Attualità

    Il Presepe Vivente

    Redazione

    [Edito 08/01/2015] Il Natale è  da sempre il  periodo più atteso dell’anno.
    Non significa città illuminate a giorno e migliaia di persone freneticamente in corsa contro il tempo per acquistare il più bel regalo, per preparare l’albero più appariscente o organizzare le settimane bianche più “in”.
    Fortunatamente Natale per tanti significa la nascita di Gesù, festività che diventa occasione di ritrovo, di riunione nelle famiglie, di riflessione e di rievocazione.
    In questa direzione va l’iniziativa della comunità parrocchiale montecalvese che nell’ambito delle manifestazioni natalizie sta preparando per Domenica 11 gennaio 2015 uno spettacolo tutto incentrato sul racconto della nascita di Nostro Signore Gesù .
    La scelta della location è caduta nelle strade del centro storico da Piazza S.Pompilio fino alla Chiesa Madre  proprio per  far rivivere in quei luoghi una atmosfera di un passato sempre vivo e quindi tanto caro ai parrocchiani e ai Montecalvesi tutti, zone e strade calpestate dal Nostro Santo piene di fascino e storia.

    La rappresentazione è preparata con cura maniacale dalla catechiste della parrocchia San Pompilio M.Pirrotti, che stanno preparando i bambini attente ad ogni minimo dettaglio. Il gruppo dei piccoli attori ce la sta mettendo tutta per far si che lo spettacolo riesca nel migliore dei modi. Alla brava Caterina Perillo il compito di preparare il coro dei ragazzi insieme ai musicisti: Lorena Fioriello, Francesco Minichiello e Matteo Lo Casale, che sarà di accompagnamento allo svolgere dalla rappresentazione. Senz’altro l’evento sarà un successo, non ci resta che segnare la data: Domenica 11 gennaio 2015 – Presepe Vivente Chiesa Madre. [Nativo]

  • ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Balli di tradizione

    La Tarantella montecalvese
    Una danza arcaica che affonda le sue radici nei riti dionisiaci.

    Angelo Siciliano

    Dioniso, riti dionisiaci e loro repressione da parte del Cristianesimo

    [Edito 05/10/2011] Dioniso era figlio di Zeus e Semele. Costei a sua volta era figlia di Cadmo, re di Tebe. Morta Semele, folgorata dallo splendore di Zeus, poiché Dioniso non era ancora nato, il padre degli dei estrasse il feto dal ventre materno e se lo infilò in una coscia. Una volta nato, Dioniso fu allevato da Ino e dalle ninfe del monte Nisa. Fattosi adulto, costituì un corteo festante di menadi, dette anche baccanti, satiri e sileni, per diffondere tra gli uomini il suo culto e la coltivazione della vite. Agli uomini avrebbe insegnato in quali proporzioni andava diluito il vino con l’acqua, giacché nell’antichità il vino era molto alcolico e in Grecia era fatto divieto di berne allo stato puro, poiché era considerato una bevanda pericolosa simile ad una droga. Il primo a scrivere del vino come un dono di Dioniso, fu Esiodo. Giunto a Nasso, Dioniso sposò Arianna che era stata abbandonata da Teseo, e la leggenda vuole che egli sia arrivato fino in India per diffondere il suo culto. Una volta che questo si era affermato dappertutto, andò a liberare sua madre dall’Oltretomba e in seguito fu accolto tra gli dei dell’Olimpo. A Dioniso sono legati i riti e i misteri dionisiaci, e negli affreschi parietali della Villa dei Misteri, della Pompei romana del I sec. a. C., è rappresentata in modo spettacolare l’iniziazione ai misteri dionisiaci. Taranto era uno dei centri in cui si era diffuso il culto dionisiaco del dio Bacco o Dioniso, e durante i riti dionisiaci, i partecipanti al tiaso, o corteo bacchico, si abbandonavano ad uno stato d’ebbrezza e l’orgiasmo dionisiaco e il menadismo, vale a dire il comportamento delle menadi nei riti dionisiaci, assumevano una spiccata connotazione erotico-sessuale. I riti dionisiaci furono praticati sino al II sec. d. C. anche in Puglia, proprio nella zona di Taranto, facente parte della Magna Grecia, e da essi sarebbe nato, come musica catartica, il ballo parossistico del tarantismo. Proprio nel II sec. d. C., Taranto fu coinvolta nello scandalo dei Baccanali che significò, per il Sud d’Italia, una serie di atroci persecuzioni religiose. A Taranto la musica era utilizzata come tramite liberatorio e risanatore. Già nel VI sec. a. C., Pitagora e i suoi seguaci adoperavano nella Magna Grecia la musica catartica, come pratica musicale di purificazione e risanamento. Nel Medioevo si crearono le condizioni che avrebbero trasformato le pratiche cultuali del “dionisismo” in quelle nuove del “tarantismo”. E queste condizioni, come rileva Ernesto De Martino nel suo libro “La terra del rimorso”, erano la conseguenza della diffusione del Cristianesimo che produsse, con le repressioni poste in atto, la crisi dei culti mitico-rituali.

  • ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Canti popolari di tradizione orale,  Cultura orale

    Il folk edulcorato

    Angelo Siciliano

    [Edito 30/09/2021] Quello che è stato divulgato in questi anni, anche attraverso le tivù, è un folk edulcorato, fasullo, lontano mille miglia dall’autenticità ormai perduta col tramonto e coll’affossamento della nostra civiltà agro-pastorale. Solo un analfabe…tismo culturale, glottologico, antropologico, etnografico e una riscrittura di canti volgari, estranei alla tradizione montecalvese, e una miopia più o meno diffusa possono far ritenere che tanti sforzi fatti abbiano colto nel segno e fatto rivivere qualcosa che non potrà mai più ritornare. Anche i costumi delle pacchiane sono una vera pacchianata. Certo, fanno colore ma sarebbe stato meglio andare alla ricerca dei costumi autentici delle nostre bisnonne – e chi conserva qualche foto antica può rendersi conto di quel che dico – per ripensare a un modo diverso di far vestire qualche gruppo nostrano che ha l’ardire di esibirsi in giro. E non sono cento o mille persone o un milione di telespettatori che possono attribuire la patente di autenticità a uno spettacolo che di autentico non potrà avere nulla. Certo è uno spettacolo e lo è come tanti altri, e basta frequentare i festival del folklore, nazionale o internazionale, per ampliare le proprie vedute – d’altronde il nostro paesello non è l’ombelico del mondo – per capire che di quella “radice autentica” non è rimasto quasi nulla. Insomma si fanno delle variazioni sul tema. Gli oltre 200 canti , compreso un poema cantato di 107 quartine, che ho raccolto in paese in decenni di ricerca sul campo, mi mettono nelle condizioni di emettere questo severo giudizio. [Nativo]

  • ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Balli di tradizione

    La Tarantella montecalvese

    Antonio Cardillo – Francesco Cardinale

    La nostra tarantella ha avuto il suo massimo sviluppo nell’epoca caratterizzata dalla diffusione dell’organetto, vale a dire, all’incirca, alla fine dell’Ottocento e nella prima parte del Novecento, sino al periodo immediatamente precedente l’avvento della televisione, intorno al 1950. Le circostanze nelle quali veniva eseguita erano diverse; durante i matrimoni, ma anche nei contesti agro-pastorali, ove se ne riscontrano almeno tre: la festa sull’aia in occasione della trebbiatura[1], l’uccisione del maiale e il capocanale[2]. In paese venivano organizzate festicciole[3] il cui scopo non era solo lo svago dei residenti ma anche quello di far conoscere tra loro i ragazzi e le ragazze in età da matrimonio. Solitamente, la tarantella rallegrava il clima e invogliava i più inibiti a unirsi alla festa. L’innamorato di turno, dopo aver dichiarato il suo amore con la serenata, rivolgendosi ai musici, concludeva: Hoj, sunatò’, quantu suni’ bellu! Famme ‘nu giru d’ tarantella![4]

         Negli ultimi otto, nove anni, abbiamo catalogato e raccolto, nel corso di registrazioni presso privati, un cospicuo numero di tarantelle cosiddette montecalvesi, che ci consentono una disamina, seppur approssimativa, della tematica. Lasciamo, come è giusto che sia, l’approfondimento metodico a chi ha più esperienza e titoli di noi. Ascoltando il materiale raccolto si evince sin da subito che, pur riconoscendo alla tarantella nostrana una sorta di originalità e una propria identità abbastanza definita, le composizioni repertate si differenziano, tuttavia, in modo considerevole. Va ricordato, ad ogni modo, che le varie versioni conservano una certa continuità sonora, grazie alla presenza di stili melodici preesistenti, elaborati con variazioni armoniche legate alla creatività dell’esecutore. Si noterà, scorrendo il repertorio, che l’esecuzione dello stesso brano a volte è differente, anche quando il lasso di tempo intercorso tra le registrazioni è poco considerevole; il che appare persino ovvio, trattandosi di esecutori che suonano a orecchio.

  • ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Balli di tradizione

    La Tarantella montecalvese

    Alfonso Caccese

    [Edito 30/09/2021] Montecalvo Irpino AV – La tarantella napoletana nacque a Napoli ai primi del ‘700. A quel tempo le coppie si conoscevano tramite le famiglie. L’amore tra i giovani era platonico. Era molto difficile avere dei contatti, potevano solo guardarsi e sorridersi. I genitori accorgendosi delle simpatie reciproche tra i loro figli organizzavano delle festicciole che finivano sempre a tarallucci  e vino (queste erano le loro possibilità!).
    Sul finire delle festicciole c’era sempre la tarantella. Anche perché in quell’epoca nelle famiglie non mancava mai un mandolino e un tamburello.

    In seguito un grande maestro napoletano Raffaele Donnarumma musicò la prima tarantella. E man mano venne figurata con vari quadri che mascheravano dietro il ballo momenti in cui era possibile di guardarsi negli occhi o in viso, sentire i primi contatti fisici dove dalla stretta della mano stessa, si poteva capire l’intensità dell’amore che stava per nascere, fino ad abbracciarsi in girotondo facendo capire che la loro felicità in seguito si poteva trasformare in amore. A tutt’oggi parecchie coppie di ballerini di tarantella si sono uniti in matrimonio. La tarantella in seguito si trasferì in quasi tutte le regioni e città del sud, così nacquero musicalmente le varie tarantelle, tra queste anche la “tarantella montecalvese”  che non si discosta molto da quella originale napoletana. Alcune variazioni musicali scaturiscono più da una sonorità tramandatasi nel tempo da musicisti provetti non capaci di leggere la musica e quindi la suonavano , come si suol dire, ad orecchio. Infatti nessuno mai ha pensato di annotare o riscrivere queste variazoni che nel corso del tempo hanno subito varie trasformazioni. In origine  la “tarantella” non nasce in ambienti agro-pastorali, piuttosto in ambienti piccoli borghesi-popolani per le ragioni sopra dette, dopodiché con la radicalizzazione nelle città e paesi del sud entra a far parte del mondo contadino arcaico ed entra di diritto nel folclore popolare meridionale. Percorso seguito anche dalla “tarantella montecalvese”, di cui della originale musicalità antica sono ancora in cerca gli appassionati e ricercatori locali che scavando nella memoria collettiva della antica civiltà contadina cercano di far riemergere spunti e note più vicine alla realtà delle origini. Quella che noi ascoltiamo oggi non è altro che una delle tante variazione della tarantella che , presumibilmente non si discosta molto da quella originale napoletana ma comunque ha in sé una musicalità ed un ritmo diverso che la differenzia dalle altre tarantelle meridionali. In più l’aggiunta di un testo vocale fa pensare che sia stata riscritta più a fine propagandistico che quello di una vera ricerca antropologica. [Nativo]

     

     

  • Ambiente,  ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Territorio

    Il MISCANO e la sua VALLE

    Mario Sorrentino

    [Edito 00/00/0000]I fiumi ci affascinano non solo perché possiamo immaginare con qualche fondamento che hanno cominciato a scorrere in un particolare luogo, si può dire, da sempre. Un sempre non infinito ma che può essere esteso nel passato sino a centinaia di migliaia di anni fa, o anche a milioni di anni; un sempre, inoltre, che ce li presenta diversi a ogni istante (Eraclito diceva che non ci possiamo tuffare due volte di seguito nello stesso fiume). Ma ci incantano i fiumi anche per altre ragioni, soprattutto per una in particolare: il mistero del significato dei loro nomi.
    I nomi dei fiumi sono fra quelli più antichi di una lingua e quasi sempre risalgono a lingue anteriori parlate nel luogo da altre etnie che si sono succedute nel territorio nel corso di periodi a volte più che millenari. E nonostante che la creazione del nome del fiume (il suo “battesimo”) e la sua trasmissione di generazione in generazione siano avvenute per lunghi periodi presso popoli che non conoscevano ancora la scrittura (e perciò è stato registrato per iscritto soltanto in un tempo storico relativamente recente), quel nome è rimasto pressoché inalterato nel suono e viene ancora usato, e sarà usato chissà ancora per quanto tempo, come nome senza preoccuparsi del suo significato originale. Serve ora soltanto per distinguerlo da altri fiumi come una tabella stradale.
    In uno scritto sulla contrada Malvizza, nel territorio di Montecalvo Irpino, abbiamo proposto, e riportato anche nell’approfondimento storico della scheda “Bolle della Malvizza” di questo museo, tra l’altro, anche una nostra ipotesi sulla etimologia del nome del Miscano.
    La nostra ipotesi, per forza di cose soltanto probabile, proponeva per il nome Miscano due significati compresenti in esso in forza di una possibile loro unione semantica avvenuta nel corso del tempo (come avviene nel noto fenomeno linguistico dell’etimologia popolare). Risalivamo sia al radicale indoeuropeo *MEZG-, probabilmente collegabile al latino “mergere”, e all’italiano “immergere” (impossibile trovare qualcosa di corrispondente nei pochi termini noti della lingua osca parlata in passato nel nostro territorio); e sia all’altro radicale indoeuropeo *MEIG-, collegabile al latino “miscere” e all’italiano “mischiare” (omologo al verbo – ‘mmishkà’ne dei dialetti locali). Ritenevamo di conseguenza che l’ipotesi da noi ricostruita si rafforzasse per il fatto che il fiume e il suo bacino venivano, primo, attraversati dal tratturo più importante della transumanza tra l’Abruzzo e la Puglia, superando guadi in cui le pecore venivano “immerse”, sia per oltrepassare il fiume, come anche per lavare la loro lana, nel percorso di ritorno in montagna, in primavera; e, secondo, che il fiume finiva con il confluire, quindi “mischiarsi”, nell’Ufita e insieme a questo immettersi poi nel Calore, l’affluente più importante del Volturno.

  • ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Cultura e tradizione,  Gastronomia

    A CACCIA DI ANTICHE TRADIZIONI – LA FESTA DEL MAIALE A CARIFE

    Gianluca Cardinale

    [Ed. 07/01/2013] Carife AV – Le antiche tradizioni, le tipicità, la valorizzazione del territorio…sono parole che leggiamo quotidianamente sui giornali ma viverle di persona è tutt’altra cosa. Nella giornata di sabato cinque gennaio siamo andati con Francesco Cardinale e Nicola Serafino a Carife. I due dedicano gran parte del loro tempo libero al recupero ed alla riscoperta di vecchi canti popolari ed arcaiche usanze contadine.
    A Carife, in Baronia, siamo andati dal Prof. Dionigi Santoro, profondo conoscitore di antiche cantilene e strumenti musicali che trovano la loro origine nel mondo agro-pastorale delle nostre zone. Ben presto ci siamo trovati immersi in un mare di secolari melodie che caratterizzavano la vita dei nostri avi soprattutto nei giorni di festa, il tutto accompagnato di volta in volta, dal magico suono di una zampogna, un flauto di canna o un organetto. Il professore ci ha narrato delle tecniche di costruzione degli strumenti, dei testi tramandati oralmente di padre in figlio, dei pastori che costruivano i loro strumenti durante le ore di pascolo del gregge. Le tarantelle ed altre musiche hanno fatto da cornice ad una mattinata dedicata al rispolvero di abitudini che purtroppo in un lasso di tempo medio-breve, in particolare dal periodo post terremoto del 1980, abbiamo lasciato nel dimenticatoio ma che rappresentano la base della cultura delle nostre zone. Non va dimenticato inoltre che le liriche sopra menzionate accompagnavano soprattutto le giornate di festa dopo lunghi e faticosi periodi di lavoro.
    Dopo alcune ore lasciamo l’abitazione del Prof. Santoro ed in sua compagnia ci rechiamo in un’altra parte del paese per fare un altro salto indietro nel tempo: La festa per l’uccisione del maiale! Neanche il tempo di scendere dalla macchina e ci troviamo coinvolti in un’atmosfera di grande festa, di calorosa accoglienza e più di tutto, di antichi sapori. Minestra, salumi, formaggi tipici, frittate, prosciutti paesani, peperoni secchi; questi sono solo alcuni dei piaceri del palato caratteristici di Carife e dell’Irpinia che abbiamo avuto il piacere di provare e che hanno accompagnato le vite dei nostri antenati per secoli. Gli organizzatori del comitato “Amici r’ lu callar” ci hanno ricevuto con gioia e fatto assistere alla preparazione del soffritto di maiale, descrivendo le varie fasi della preparazione. Non dimentichiamo che fino a pochi anni fa, il maiale serviva come mezzo di sostentamento per le famiglie contadine per l’intera durata dell’anno, quindi più il suino era grosso al momento dell’uccisione…maggiore era la festa! Una curiosa espressione di vanto del proprietario della bestia era: “Lu puorco quest’anno tene quatt’ reta de lardo!”

    A metà pomeriggio ci siamo lasciati alle spalle il paese della Baronia, coscienti di aver passato alcune ore in compagnia di persone splendide ed all’insegna di tradizioni che non vanno assolutamente dimenticate in quanto rappresentano le radici di tutti noi. Speriamo un domani di avere i nostri amici di Carife come ospiti a Montecalvo, in una nostra versione della festa del maiale, semmai accompagnata dal suono della zampogna del Prof. Santoro e da un itinerario culturale che faccia scoprire ai visitatori le bellezze e la cultura del nostro paese. [Nativo]

  • Ambiente,  ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Cultura,  Il nostro passato,  Trekking

    IL TRATTURO DELLA TRANSUMANZA PESCASSEROLI – CANDELA

    Mario Sorrentino

    [Edito 00/00/0000] Il tratturo ai tempi del Sannio antico, oltre che una reale via d’erba che potevano percorrere gli animali, valeva come simbolo dell’unione prima di tutto sacrale e poi culturale e politica delle diverse tribù dello stesso ceppo etnico che si erano andate diversificando nel tempo e nello spazio nelle due culture materiali dei pastori e degli agricoltori.
    Era la loro un’economia complementare che permetteva la reciproca sopravvivenza di allevatori e coltivatori in un territorio in prevalenza montuoso, aspro e molto freddo d’inverno, e con scarsi pianori coltivabili non molto fertili. Fondamento essenziale di quest’economia primitiva era perciò l’allevamento che avveniva con lo spostamento alternato in primavera e in autunno di milioni di capi di bestiame (pecore e capre, in prevalenza, ma anche buoi, maiali e cavalli) dai monti alle pianure, e viceversa, attraverso il vasto territorio compreso tra l’attuale Abruzzo e il Tavoliere pugliese.
    I tratturi erano vie d’erba su terreni non fangosi aperti molto probabilmente dagli stessi animali che a branchi si spostavano alla ricerca dei pascoli, quando l’uomo del Neolitico si limitava a seguirli per cacciarli. Poi, con il susseguirsi delle varie civiltà (quella appenninica, i Sanniti, i Romani, ecc.) nel territorio attraversato dai maggiori tracciati, la transumanza fu organizzata e sfruttata economicamente, come è avvenuto sino a circa metà del secolo appena trascorso. “Sergenti” al comando dei pastori erano quei grandi e lanosi cani bianchi, selezionati anticamente e utilizzati ancora oggi per guidare le greggi: i cani di razza abruzzese.
    Lungo il tratturo sorgevano le stazioni di sosta per il riposo di animali e uomini e per lo scambio di prodotti con gli agricoltori (lana, pelli, carne, formaggi, cuccioli contro cereali, olio e vino, e, su un piano solo per noi più elevato: lo scambio matrimoniale). Si svolgevano in quella occasione anche le varie ritualità ordinarie di tipo religioso (v. scheda su “Le Bolle della Malvizza”), politico e civile che cementavano la federazione delle diverse tribù sannite in tempo di pace. In guerra scattavano altri appuntamenti e riti propiziatori. Le stazioni di sosta erano quasi sempre comprese all’interno degli “oppida”. Piccoli centri urbani caratterizzati da un reticolo di vicoli contorti e stretti per poter controllare il deflusso delle greggi, dalla presenza di sorgenti abbondanti d’acqua, e difese da cinte di mura dette “ciclopiche” (mura di grosse pietre poste in opera a secco), le quali, dove possibile, venivano addossate a rocce, se non erano sostituite magari a tratti da queste quando erano inaccessibili naturalmente a nemici o a gruppi di predatori.
    Gli “oppida” (sempre visibili tra loro almeno due a due) scandivano il tratturo in giornate di marcia in base alle esigenze del multiforme mondo di animali e uomini che si spostava due volte all’anno su e giù lungo il percorso, secondo il noto alternarsi “primavera – autunno” e “monte – piano”.

  • ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Cultura

    Il Malocchio

    L’ “esorcismo degli occhi” è una forma superstiziosa di tradizione, tuttora praticata, che consiste in una serie di operazioni da eseguire per togliere il malocchio alle persone che se ne considerano affette (il malocchio si instaura con lo sguardo di determinate persone che hanno questo potere occulto). Il presunto malato, che generalmente avverte mal di testa come prova del “male” che lo ha colpito, preliminarmente si fa il segno della croce. La persona addetta ad eliminare il malocchio provvede innanzitutto a verificare se il malocchio effettivamente c’è, versando tre gocce di olio in una scodella d’ acqua con la punta di un dito: se le gocce si allargano espandendosi il malocchio effettivamente c’è. Allora si tracciano tre segni della croce sul capo del paziente pronunciando la “formula magica”: “Tre santi hanno visto, tre santi hanno trovato, io arreccomanno a Maronna addolorata, io arreccomanno a Santo Rafaele, n’ ata vota isso com’ era. Ttù a l’ uocchi!” (Sputando dopo l’ imprecazione). L’ operazione si ripete tre volte, svuotando la scodella di acqua una volta dalla finestra, una volta dalla porta o dalla finestra, l’ ultima volta sulle ceneri del focolare. Dopodiché il malocchio è eliminato.
    [Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - Google Maps]

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [E. Venezia Atripalda: vita contadina nella valle del Salzola, Assessorato ai beni culturali, Atripalda AV, 1986]