• Approfondimenti,  Cultura,  Storie di Emigrati

    EMIGRAZIONE TRAPPETARA

    Mario Corcetto

    Abitanti del Trappeto negli anni ’70 del Novecento – Foto di Mario Sorrentino

    Il fenomeno migratorio, conseguenza della grave situazione economica di tutto il Meridione, interessò massicciamente Montecalvo e, segnatamente, il Trappeto quale suo principale bacino. Dalla fine del secolo XIX agli anni sessante/settanta del secolo scorso non è esagerato dire che ci fu un vero e proprio esodo verso il Nuovo Mondo, prima, e verso l’Europa del Nord, dopo. Ancora oggi i Paesi ospitanti vedono Trappetari di terza/quarta generazione, oramai pienamente integrati, tra la loro forza lavoro e, molto spesso, tra i quadri dirigenti.
    Resa necessaria da fattori esogeni, sui quali gli umili non avevano potuto incidere in alcun modo e nei quali non avevano nessuna responsabilità, l’emigrazione, complice la connaturata abitudine al sacrificio dei Trappetari, fu percepita come una soluzione ai molti mali che affliggevano la popolazione più povera del quartiere. Bene inatteso ed insperato che riscattava dalla miseria chi si trovava indietro per condizione imposta, piuttosto che per difetto di capacità o volontà.
    Dal punto di vista sociale, l’emigrazione fu un eccezionale opportunità che i Trappetari seppero cogliere appieno. Uno strumento che decretò il definitivo ribaltamento dell’ordine sociale sino ad allora subito e che traghettò la classe contadina verso livelli di uguaglianza e dignità impensabili ed impensati fino ad allora.
    Generalmente, i primi a partire erano gli uomini, successivamente venivano raggiunti dalle mogli, quando la situazione in loco si era consolidata ed i permessi di soggiorno consentivano il ricongiungimento con il coniuge. La Svizzera, per esempio, aveva tre tipi di permesso di soggiorno: A, B e C. Il primo, detto anche stagionale, consentiva all’emigrante in possesso di regolare contratto di lavoro, di risiedere e lavorare sul territorio elvetico per massimo nove mesi all’anno, senza la possibilità di portare al seguito la famiglia. Erano consentite visite dei congiunti, ma soltanto come turisti e per massimo tre mesi all’anno. Il permesso di tipo B, ottenibile dopo quattro anni da stagionale, consentiva all’emigrante di lavorare per tutto l’anno e di portare la famiglia al seguito. Il permesso di tipo C, che veniva concesso dopo cinque anni dall’ottenimento del B, aggiungeva a quest’ultimo la facoltà per il suo possessore di aprire un’attività commerciale o artigianale propria. In ogni caso, per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, oltre agli anni ed al gradimento della ditta, insito nel rinnovo del contratto di lavoro, veniva considerato anche il comportamento nella vita privata dell’emigrante: i cittadini svizzeri erano molto solleciti a segnalare alla polizia ogni comportamento scorretto tenuto dagli ospiti.
    Non era raro, tuttavia, che, per scelta consapevole della coppia, la moglie restasse a Montecalvo a crescere la prole e che solo il marito si trasferisse, optando per una migrazione stagionale. Egli passava a casa i mesi rigidi dell’inverno ed il mese di agosto. Originando, così, quel fenomeno sociale delle cosiddette vedove bianche, che traghettò buona parte della società trappetara da una famiglia di tipo patriarcale ad una di tipo matriarcale, generando vere e proprie storture comportamentali con riflessi di non poco conto sul comune sentire. Si può pensare che mentre il padre, che notoriamente incarnava in seno alla famiglia l’autorità, orientava l’educazione dei figli verso il prioritario rispetto delle regole sociali, anche a costo di sacrificare i propri interessi. Le mamme, invece, avevano la tendenza a salvaguardare gli interessi diretti dei figli, se necessario anche a scapito del bene comune. Figlia di questo atteggiamento delle madri potrebbe essere l’abitudine a ricercare la “raccomandazione” per aggiudicarsi un lavoro o un qualsiasi altro beneficio.

  • Cultura,  Il nostro passato

    Ricordo di una presenza

    Mario Corcetto


    [Ed. 03/08/2008] Firenze ha avuto l’onore di ospitare, il giorno 30 marzo 2008, il rito solenne della beatificazione della Venerabile Celestina Donati, fondatrice della congregazione delle Figlie Povere di San Giuseppe Calasanzio , ai più note come suore Calasanziane La notizia dell’evento mi ha inevitabilmente fatto tornare alla mente le suore Calasanziane che erano a Montecalvo, la cui principale missione era prendersi cura dell’asilo infantile “Rosa Cristini”. E che, invece, tanto si spesero in ogni ambito religioso e sociale da lasciare indelebile il segno del loro passaggio. Suor Flora (la superiora, Suor Dorina, Suor Eulalia, Suor Nicoletta, Suor Rosita, La Madre Maestra (mi accorgo ora di averne sempre ignorato il nome) sono tutti nomi impressi nella memoria mia e di tantissimi montecalvesi della mia generazione. E con loro il ricordo del busto di San Pompilio all’ingresso dell’asilo; dell’attaccapanni con i disegni per riconoscere il proprio posto; del grembiule a quadrettini celesti per i maschietti e rosa per le femminucce (salvo poi l’iniziazione congiunta all’arte del ricamo); dei lavoretti col punteruolo; della vetrinetta con i giochi di legno (sempre nuovi del profumo della pasta e fagioli preparata da Suor Nicoletta; dei lunghi tavoli celesti del refettorio; dei riposi pomeridiani obbligatori, fatti sul banco di classe; del nostro sciamare festoso appena ci era consentita l’uscita in giardino; della battitura dei tappeti tenuti tesi da noi tutt’attorno; delle gallerie per la macchinina scavate sotto le radici del pino al centro del giardino; di qualche scappellotto; di qualche “castigo” faccia al muro; della merenda con il pane e il budino al cioccolato (rara prelibatezza, allora, dalle nostre Parti).

  • Cultura,  Editoria,  Storie di Emigrati

    Presentato il libro di Arturo De Cillis “My name is Pumpilio”

    [Ed. 18/08/2008] Montecalvo Irpino AV – Nella cappella della casa natale di San pompilio M. Pirrotti, organizzato dalla redazione della rivista “Disputationes Pompiliane” alla presenza di un folto pubblico è stata presentata l’opera del Dott.Arturo De Cillis dal titolo “My name is Pumpilio” una raccolta di circa 1500 schede monografiche di cittadini montecalvesi emigrati negli Stati Uniti tra il 1892 e il 1924.
    L’introduzione è stata affidata al Prof. Alberto De Lillo che ha letto un saggio breve scritto dal nostro concittadi Mario Corcetto, su uno spaccato della vita di emigranti montecalvesi in Svizzera. Di seguito il parroco Don Teodoro Rapuano ringrazia il Dott.Arturo De Cillis per la sua presenza e per la sensibilità dimostrata nel donare le intere copie del libro alla comunità parrocchiale che le ha messe in vendita per ricavarne utile per il completamento del “MUSEO DELLA RELIGIOSITA’ MONTECALVESE E DELLA MEMORIA POMPILIANA”. Interessante l’intervento di Padre Martino Gaudioso che si è soffermato sull’importanza della conoscenza del passato e soprattutto sulla conoscenza delle proprie origini. Atteso e applaudito l’intervento dell’autore che spiega come e perchè ha realizzato l’opera, essendosi di persona recato negli Stati Uniti e precesiamente ad Ellis Island, punto di arrivo e raccolta per tutti coloro che volessero entrare nel nuovo mondo, a raccogliere le schede riguardanti i nostri concittadini. Al termine della manifestazione la proiezione di un filmato dell’Istituto Luce sul terremoto del 1930 che distrusse buona parte del paese e l’incontro con il Dott. Arturo De Cillis impeganto ad autografare numerossime copie del libro acquistate dai presenti alla manifestazione. [Nativo]

    Redazione

  • Politica

    “Caro” Comune!

    Mario Corcetto

    Montecalvo Irpino AV – “Caro” Comune!

    Chi inquina paga, dice l’Europa. No, ribatte il comune di Montecalvo, pagano tutti. Anzi chi inquina di meno deve pagare di più! Un paradosso? Macché, una triste realtà.

    Sia fatto 100 il costo della TARI. Per i non residenti il Comune di Montecalvo prevede un abbattimento del 20%, per cui chi non risiede paga 80. Sì, ma facciamo un po’ di calcoli. Un residente paga 100 ma usufruisce del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti per 12 mesi (11 se uno se lo concede di vacanza). Dividendo il costo pieno (100) per 12 ne deriva un costo mensile di 8.34 (9.09 se va in vacanza per un mese). Un oriundo, invece, in un anno usufruirà del servizio per un mese, massimo due, con un costo mensile di 80 o 40, in proporzione molto di più (fino a 10 volte tanto).

    Vecchie reminiscenze degli studi di diritto tributario riportano alla mente la circostanza che la tassa sia dovuta a fronte di un servizio fruito. Ha carattere commutativo, dicono quelli che sanno, poiché è il corrispettivo di una prestazione.  Si dirà: ma anche la predisposizione di un servizio, di cui per fatti personali si gode per tempo limitato, ha un costo. E su questo si deve convenire. Non si può organizzare un servizio alla bisogna del singolo.

    Tuttavia, da una verifica effettuata nei paesi limitrofi, tutti facenti capo ad Irpinia Ambiente per lo smaltimento dei rifiuti, è emersa la seguente situazione che rappresenta plasticamente la sproporzione  di  quanto  sia  addebitato  agli  oriundi  montecalvesi  per  il  costo  del  servizio,  in relazione a quanto speso dai vicini

    CALCOLO PER UNA SECONDA CASA DI 50 MQ (al netto del 5% dovuto alla provincia)
      Comune N. abitanti Utenti figurativi Costo fisso a mq Quota variabile   Abbattimento Costo annuo in euro   Differenza €
    Montecalvo Irpino   3336   2   0.73   323   20%   287   –
    Castel Baronia   1061   1 0.25 (già abbattuto) 61.59 (già abbattuto)   50%   74.09   – 212,91
      Scampitella   1036   2   0.85   150   15%   163.62   – 123.38
      Montaguto   417   1   0.24   45.57   –   57.57   – 229.43
      Flumeri   2586   2   0.22   279   30%   203   – 84
      Bonito   2216   1   0.77   52.74   30%   63.86   – 223,14

    Dalla    tabella    comparativa    risulta    evidente    che,    rispetto    agli    altri    comuni    esaminati, l’amministrazione montecalvese NON ha:

    –  individuato, a fronte di costi che dovrebbero essere analoghi, forme di contenimento della spesa per i cittadini;

    –   adottato agevolazioni significative nei confronti dei non residenti.

    Peraltro, tra i paesi esaminati Montecalvo è il più popoloso, circostanza che dovrebbe far realizzare le cosiddette economie di scala, con conseguente abbattimento dei costi.

    A questo punto qualche considerazione si impone. Va ricordato, in primis, che i non residenti pagano l’IMU, per legge non applicata alla prima casa dei residenti. Questo tributo, sommato alla tassa in parola, colloca coloro che non hanno rappresentanza politica locale tra i contribuenti più generosi per le casse comunali.

    La divisione pedissequa del costo tra i contribuenti, non richiede alcuna valutazione essendo un mero fatto ragionieristico. Mentre il più alto momento istituzionale di chi rappresenta ed amministra una comunità è la valutazione politica degli atti pensati, disposti e attuati: sia nella ricerca di soluzioni vantaggiose per tutti i cittadini, sia per un’equa ripartizione degli oneri, sia per il rispetto delle minoranze, soprattutto di quelle presenti ma non rappresentate politicamente. Sì, perché gli oriundi sono presenti. Fanno parte della comunità. Partecipano alle spese comunali. Concorrono alla manutenzione del patrimonio immobiliare. Alimentano l’economia del paese. Frequentano parenti ed amici che, loro sì, sono elettori!

    Per quanto precede, io cittadino “diversamente presente”, auspico un deciso intervento per il contenimento  degli  oneri,  evidentemente  possibile  non  in  ipotesi  ma  riscontrato  attraverso l’indagine condotta. L’onere della ricerca di forme di risparmio lo vedo in capo agli attuali amministratori, che hanno ancora il tempo per un atto riparatorio e per lasciare una giusta eredità a chi gli succederà. E lo vedo in capo alle opposizioni che dovrebbero istituzionalmente farsi carico di raccogliere e far propria la voce delle minoranze ed esercitare la funzione di pungolo politico nei confronti di chi amministra.

    Sono convinto che non sarà azione semplice. Che richiederà coraggioso impegno. Ma sono altrettanto convinto che sarà azione meritoria che gratificherà tutti, elettori e non. Chi ingaggerà questa “battaglia”, comunque vada, sarà ripagato lautamente dalla gratitudine   dei montecalvesi vicini e lontani. Si fa politica pure per questo. O no!?

    Un caro abbraccio a tutti.

    Mario CORCETTO (mariocorcetto@tiscali.it)

  • Cultura,  Storie di Emigrati

    IL PICCOLO FATTORINO

    Mario Corcetto

    [Edito 15/05/2005] “Prudenza, perché ci sono le targhe bianche!” ricordo di aver sentito dire in un lontano dicembre degli anni settanta al fattorino rivolto all’autista del pullman che ci riportava da Ariano. Egli voleva con questo significare che bisognava guidare l’autobus con maggiore attenzione del solito perché erano giunti in paese, per le vacanze di Natale, gli emigranti dalla Svizzera e dalla Germania, le cui macchine avevano appunto le targhe di colore bianco. Era necessario fare attenzione perché, secondo il fattorino, il pericolo era incombente per la genetica incapacità dei nostri concittadini di guidare una macchina!

    Quelle poche stupide parole, che provocarono una sguaiata risata dell’autista e di alcuni presenti, denotavano un tale disprezzo per gli emigranti che a me, quindicenne figlio di emigrante,  ferì profondamente. Quel senso di superiorità che serpeggiava in chi era rimasto a casa propria, non di rado a costo di vergognosi compromessi con la propria coscienza, svenduta a chi per interessi di bottega faceva mercimonio della cosa pubblica, mortificava profondamente la sensibilità di chi, escluso a priori da ogni leale competizione, doveva anche sostenere gli oneri di quel sistema clientelare.

    L’episodio del fattorino mi è tornato alla mente di recente in occasione di un mio breve soggiorno in Svizzera. Mentre mi aggiravo per il centro del paesino in cui ero ospite vedevo le vetrine addobbate come da noi, con gli stessi prodotti, delle stesse marche, pubblicizzati con gli stessi slogan. Da uno sportello bancario ho potuto prelevare contante con la mia carta bancomat. Le macchine in giro erano uguali a quelle in circolazione da noi, anche i colori delle targhe ora si assomigliavano. I prodotti in vendita nei supermercati erano gli stessi reperibili da noi. I telefoni cellulari usati dalla gente erano delle stesse marche nostre, le suonerie identiche. Molte insegne dei negozi erano scritte in inglese, le altre ovviamente in francese: entrambe le lingue più o meno conosciute, perlomeno nelle parole essenziali, anche da chi ha frequentato uno dei “premiati diplomifici” arianesi. I ragazzi erano in jeans e scarpe da ginnastica, come da noi. Tutto l’insieme contribuiva ad annullare quel senso di disagio che solitamente accompagna chi si trova fuori dal proprio ambiente. Mi sentivo come se fossi in giro per una qualsiasi città italiana.

  • Cultura,  Cultura orale

    LI DITTI ANTICHI NUN FALLISCINU MAI (I detti antichi non falliscono mai)

    Mario Corcetto

    La presente raccolta riunisce 418 proverbi in vernacolo montecalvese, non proverbi “montecalvesi”, perché certamente non tutte le massime raccolte sono state coniate a Montecalvo, anche se comunemente usate nel quotidiano. Larghissima parte di esse credo provenga da paesi e popoli vicini, con cui i montecalvesi hanno interagito in passato. Sono entrati a far parte della nostra tradizione, oserei dire ammesse, non prima di avere subito una sagace selezione da parte dei nostri padri che, in quanto ad acume, non li si può ritenere secondi a nessuno. Nel raccoglierli, ho cercato, con rigore metodologico, di tenermi lontano da ogni contaminazione esterna, dovuta ai contatti con persone provenienti da tutt’Italia, che avrebbe potuto compromettere il lavoro di recupero sperato. Per questo motivo, ho trascritto soltanto quei proverbi che sono assolutamente certo di aver sentito dire a Montecalvo.

    E’ stato per me divertente scavare nei miei ricordi ed annotare, man mano che mi sovvenivano, queste massime che, se ne può convenire, sono delle vere e proprie perle di saggezza. Esse, con poche parole, riescono a sintetizzare giudizi, dettami o consigli che derivano da esperienze comuni di vita vissuta. Si tratta di confortanti pensieri di verità, capaci di esorcizzare paure, preoccupazioni ed incertezze, fornendo una chiave di lettura dei fatti umani, stemperandone a volte la gravità con la mera testimonianza del già vissuto. Quasi una sorta di nobilitazione dei fatti ordinari e delle miserie, che possono così assurgere a “cultura”. Li potremmo definire delle istantanee di esperienze, capaci di immortalare un sentire piuttosto che un vedere! Sono tutti belli. Alcuni li ho trovati esilaranti, come la pretestuosa condizione de “Lu mijézzu puórcu miju lu vogliu vivu” (Il mio mezzo maiale lo voglio vivo), altri amari, altri poetici… qualcuno forse un po’ scurrile. Ma tutti profondi e capaci di esprimere e tramandare il sapere popolare meglio di qualsiasi trattato. Oltre ad evidenziare una spesso misconosciuta nobiltà d’animo del popolo montecalvese: “A la casa di lu pizzente nu’mmanchino maj li tozzira” (Nella casa del povero non mancano mai i tozzi di pane): per dire che il povero, più che il ricco, sa essere disponibile verso chi è nel bisogno.

    Molti li ho “testati” fuori sede! Ricordo di aver sollecitato una pratica ad un collega di Trento, apostrofandolo dicendo che “La cera si cunzuma e la prucissione nu’cammìna” (La cera si consuma e la processione non cammina). Ai miei diretti collaboratori dicevo spesso: “Ti sacciu piru a la vigna mija” (Ti conosco pero alla mia vigna) per richiamare coi piedi per terra chi tendeva a sopravvalutarsi. Ad un collega che si era venuto a sfogare per l’incauto acquisto di una macchina usata, rivelatasi una fregatura, dissi che: “Lu ciucciu viécchju a la casa di lu fessa móre” (L’asino vecchio in casa del fesso muore). Debbo dire che hanno tutti centrato l’obiettivo! Ho sempre strappato un sorriso ed ottenuto l’effetto sperato.

    Citandoli, non ho fatto altro che esportare saggezza, non mia certamente, ma dei nostri avi.

    Questi proverbi, spesso in metafora, talvolta in rima, hanno tutti la caratteristica di non stigmatizzare comportamenti, quanto di tesaurizzare le esperienze per evitare che si ripetano gli errori commessi.

  • Costume e Società

    A televisione

    Mario Corcetto

    Tra i ricordi della mia prima età, un posto di rilievo occupa la televisione e le emozioni che l’arrivo del piccolo schermo seppe regalare ai montecalvesi di allora. Non so quanto internet e la tecnologia di oggi abbiano saputo dare alle moderne generazioni in termini di emozioni. Dubito, però, che i nostri giovani possano aver provato le nostre sensazioni e che i loro animi abbiano vibrato quanto i nostri di fronte alla scatola magica da cui uscivano immagini e suoni. E non certo perchè i giovani di oggi sappiano emozionarsi meno, quanto perchè per noi la televisione non era l’evoluzione di qualcosa preesistente, non si aggiungeva a niente. Se non forse al cinematografo, che, tuttavia, non si presentava così aderente quotidianità.

    Non avendone la competenza, non posso parlare né degli aspetti sociologici né degli innegabili meriti dello strumento televisivo, che indubbiamente ha rappresentato un validissimo mezzo di divulgazione di cultura, usi e costumi contribuendo non poco ad italianizzarci ed a perfezionare quel processo integrativo iniziato con l’Unità d’Italia.

    Posso solo raccontare delle emozioni che l’esordio di tale mezzo seppe regalare a noi teleutenti di allora, peraltro in maniera ancora tanto discreta da non saturare la vita e l’animo di ognuno. Lasciando in tutti ancora lo spazio per continuare ad emozionarsi e a sognare in proprio.

  • Cultura e tradizione

    “A PALLINE”

    Mario Corcetto

    Mi cimento nella descrizione di questo gioco con il duplice obiettivo di rinverdire i ricordi dei miei coetanei, sperando che siano definitivamente fugati i dubbi interpretativi sulle norme di gioco, e per far conoscere ai nostri figli come giocavamo e quanto eravamo versati nell’italica capacità normativa!
    Il gioco delle biglie era molto diffuso e praticato dai ragazzi Montecalvesi, soprattutto nel periodo scolastico. Esso era un importante occasione di aggregazione trasversale, che vedeva coinvolti ragazzi di ogni ceto sociale. Generalmente, i ragazzi del “popolo” erano quelli che esprimevano le vere eccellenze, probabilmente perché essendo un gioco che prevedeva un “investimento” iniziale per l’acquisto delle biglie, chi aveva minore disponibilità metteva sempre il massimo impegno nel gioco, pena la sospensione dell’”attività” per mancanza di capitale. Il principale terreno di gioco erano le aiuole della vecchia Piazzetta: sia per la vicinanza agli edifici scolastici (ogni minuto prima dell’entrata in classe e molti di quelli immediatamente dopo l’uscita da scuola, potevano essere impegnati nel gioco), sia per la comodità rappresentata dai cordoli delle aiuole che circoscrivevano egregiamente il terreno di gioco.
    Erano diffuse vere e proprie società di fatto tra due o più ragazzi che ad inizio stagione decidevano di giocare “a la parte”, vale a dire si accordavano per evitare scontri diretti, dividere le vincite e fronteggiare con la cassa comune le perdite. Alla costituzione del sodalizio, i soci concordavano e versavano nella cassa comune un tot di biglie che costituivano la dotazione di partenza, da cui si attingeva per praticare il gioco. Allo scioglimento della società, se il bilancio era in attivo, ogni socio recuperava l’investimento iniziale e le eventuali plusvalenze venivano divise in parti uguali. Le alleanze, ovviamente, venivano cercate tra giocatori bravi, per la massimizzazione dei profitti. A meno che il giocatore meno capace non avesse una dimostrata disponibilità di “capitale”, nel qual caso un campione lo accettava come socio, configurando, questa volta, una vera e propria società in accomandita semplice!
    Potevano partecipare al gioco 2 o più giocatori senza un limite precisato, tuttavia era preferibile che esso fosse contenuto, per praticità, nel numero di 4 o massimo 5.
    Occorrevano una biglia per ogni giocatore, uno spazio su terra battuta, una buca di forma circolare – di circa 5 centimetri di diametro ed altrettanti di profondità – sul terreno di gioco, detta “càccia”.

  • Forum

    Il futuro della Valle del Miscano.

    Si accende il dibattito sul web

    [Ed. 00/02/2007] Montecalvo Irpino AV – Si accende il dibattito pubblico intorno al futuro socio-economico della cittadina della valle del Miscano. Sul forum del sito web www.irpino.it è partito un workshop virtuale all’interno del quale i cittadini, residenti e non, stanno aprendo il dibattito sulle potenzialità del Comune e sui suoi punti deboli. «Credo che ci sia bisogno di un accurata analisi socio-economica, che nasca dalle migliori intelligenze del paese riunite in un apposito gruppo di lavoro, o comitato civico – dice Mario Corcetto -. Le risultanze di detto studio dovrebbero essere messe a disposizione degli amministratori e degli operatori economici, non necessariamente montecalvesi, affinché vi possano trarre utili spunti per impostare concrete iniziative per l’innesco di un ciclo economico virtuoso». Secondo Corcetto dovrebbe essere elaborato uno strumento al servizio della progettualità. Tale analisi dovrebbe esaminare la componente antropologica stanziale; la situazione occupazionale; l’entità e natura dell’emigrazione stagionale; l’entità e natura dell’emigrazione stabilizzata; l’entità e natura dell’immigrazione; la realtà economica attuale; la domanda e l’offerta virtuali di forza lavoro e le competenze e professionalità disponibili. «Poi andrebbero fissati gli obiettivi strategici perseguibili ed i tempi di realizzazione – continua Mario Corcetto – individuando i segmenti di mercato con concreti margini d’inserimento».
    Secondo quanto emerge dal dibattito andrebbero censite ed esaminate le risorse disponibili e quelle virtuali in modo da fare il punto della situazione sulle forze e gli strumenti disponibili. Vanno anche individuate ed analizzate le criticità settoriali e le sinergie possibili tra le varie componenti istituzionali, religiose, sociali ed economiche montecalvesi. «Così sarà possibile abbozzare un congiunto concetto d’azione – conclude Corcetto – un approccio sistematico, insomma, che non trascuri alcun aspetto importante e che si prefigga l’obiettivo, forse un po’ ambizioso ma secondo me possibile, di bloccare il flusso migratorio dei giovani e della famiglie montecalvesi; favorire il rientro di nuclei familiari della fascia non ancora stabilizzata ed attrarre i compaesani stabilizzati altrove che hanno cessato l’attività lavorativa». [Nativo]

    Redazione

  • Cultura e tradizione

    PAZZIJEDDRE DI CRIJATURE
    (Giochi di ragazzi)

    Mario Corcetto

    Essere ragazzi al Trappeto era solo un fatto anagrafico. Si passava dalla fanciullezza alla maturità, senza transitare dall’età della spensieratezza cosciente. I bambini erano destinati dapprima alle incombenze minute  (come,  ad  esempio,  accudire  gli  animali  da  cortile,  andare  alla  fontana  a prendere ‘na véppita d’acqua fréscha”, raccogliere le granaglie cadute dalla rachina su cui erano state poste ad asciugare), e, via via che passavano gli anni, venivano adibiti a mansioni sempre più impegnative fino a raggiungere la piena maturità “contributiva” (nel senso di contribuire al benessere della famiglia) già in prossimità dell’adolescenza. Il passaggio all’ “inquadramento” superiore, in casa veniva formalmente sancito con l’ammissione alla tavola dei grandi, lasciando la buffitteddra, posta in un angolo della casa, ai fratelli minori. Questo precoce coinvolgimento dei figli nelle attività della famiglia non era, però, una forma di sfruttamento. Certo, delle braccia in più facevano comodo, ma, per quanto possa sembrare strano secondo la mentalità contemporanea, esso era principalmente un’attribuzione di dignità. L’ammissione all’elevazione sociale, che, per il povero trappetaro, non poteva che derivare dal lavoro. Non a caso la prima qualità che si declamava di una persona per bene era il suo essere “fatijatore”. Così, ad esempio, il pretendente di una giovane donna poteva anche non avere nulla, ma era lo stesso ben accetto, quando ne chiedeva la mano, se aveva questa qualità. Insomma, il lavoro minorile era una palestra di vita, con risvolti tangibili nell’ambito della comunità in cui si viveva.

    E che non fosse malevola l’intenzione dei genitori che avviavano precocemente i figli al lavoro, ne è riprova la tenerezza che i genitori avevano e mantenevano verso la prole. Magari non esternata con effusioni d’affetto, per ragioni connesse al costume (il padre temeva di indebolire la sua immagine autoritaria che il ruolo di capo di casa gli imponeva). Qualcosa in più si concedeva la madre, ma nulla che assomigliasse, neanche vagamente, alle smielate moine a cui spesso si assiste oggi. Perciò, fatta salva l’immagine e contrabbandando la cosa per una forma di risparmio, si trovava sempre il tempo per provvedere a qualche rudimentale ninnolo per il gioco del piccolo: il padre costruiva lu strummilu o la carrozza per il figlio e per la figlia la cunnilecchja dove far dormire la pupeddra che la mamma confezionava piegando qualche misero straccio. Quando la mamma  ammassava faceva sempre la vaccareddra (un pezzo di pasta tagliato a forma di X, che, con un notevole sforzo di fantasia, lo  si  poteva assomigliare ad  una piccola mucca acquattata a gambe divaricate), cotta insieme alle pizze bianche, per il piccolo di casa.