Beni etno-antropologici

  • Beni,  Beni etno-antropologici

    La Sekoma di Montecalvo Irpino

    «La Sekoma Di Montecalvo Irpino Prima Banca Del Civico Monte Frumentario»

    Giovanni Bosco Maria Cavalletti

    [Edito 22/06/2023] La storia della Sekoma, già adiacente al fontanino della scalinata di Piazza San Pompilio in Montecalvo Irpino, e che dopo aver migrato davanti al municipio montecalvese fa oggi mostra di sé nella rientranza di Corso Umberto da qualche anno intitolata a «Giovanbattista Tedesco», va ricondotta alle vicende legate alla nascita dei primi monti frumentari, pie istituzioni sorte alla fine del xv secolo allo scopo di prestare il grano per la semina ai contadini bisognosi costretti, in assenza del credito, a sfarinare anche le necessarie riserve.

    Nei due secoli successivi si ebbe la loro massima diffusione. Non solo considerazioni di carattere iconografico e strutturali, ma anche ragioni politiche e storiche legate all’economia cerealicola del territorio montecalvese, riconducono l’epoca di esecuzione del reperto al XVI secolo.

    L’utilizzo del materiale impiegato, calcare caratterizzato dagli inconfondibili «favacci», tipici della cosiddetta «breccia irpina», indica l’estrazione del monolito da una delle antiche cave irpine. La misurazione dei vari spessori del blocco lapideo, in considerazione della tecnica dell’alto rilievo utilizzata per scalpellare le immagini poste sul lato anteriore, rivela l’idea progettuale che inglobava la volontà di indicarne sia la committenza, sia l’utilizzo.

  • Beni,  Beni artistici e storici,  Beni etno-antropologici

    Dipinto “Madonna della Purità”

    Ubicazione: Chiesa S. Antonio di Padova (altare maggiore) – Via S. Antonio

    Il dipinto fu eseguito da un pittore campano nella metà del XVI secolo. Realizzato ad olio su tavola (cm.150 x cm.150), esso raffigura la Madonna col Bambino e presenta la Vergine con lo sguardo basso, volto verso la destra dell’osservatore ed il Bambino con lo sguardo rivolto verso colui che guarda. Il Bambino cinge il collo della madre, mentre la Madonna accarezza teneramente il suo piede.

    [Crediti│Testo - CTC Centro turismo culturale]

    Redazione

  • Beni,  Beni etno-antropologici,  Cultura e tradizione

    Il Costume tradizionale “La Pacchiana”

    Il tipico costume femminile montecalvese prende il nome di “Pacchiana”. La sua unicità è rappresentata dal fatto che esso è sopravvissuto all’assalto dei tempi senza diventare il “relitto” di una società scomparsa, ma ancora quotidianamente indossato dalle donne del luogo. Originariamente esistevano due versioni dell’abito: quella giornaliera (piuttosto semplice) e quella delle grandi occasioni. La seconda, in particolare, si presentava molto particolareggiata, con lunghe mutande ornate da un merletto lavorato a “puntina” e calzettoni di una calda lana nera. Sulla camicia di mussola bianca, abbellita da iniziali rosse a “punto a croce” e da un fine merletto giallo, troviamo un gilet, dai vari colori, ed un corpetto nero che serve a reggere le maniche . Un “mantesino” (= grembiule, dal latino “ante-sinum”), ricamato con fili dorati, arricchisce la gonna di velluto o di raso plissettata, lunga fino al ginocchio, ma che nel corso del nostro secolo si è sempre più accorciata. Le scarpe, adornate con le “capisciole” (piccoli nastri), potevano essere di varie tinte. Il costume si componeva anche di un copricapo, che variava a seconda dei giorni: in quelli festivi si usava “la pannuccia” (molto larga e con una frangia che finiva col coprire tutta la schiena), mentre quotidianamente venivano utilizzati il “maccaturo” o la “tovaglia”, ricamata “a spugna”. L’oro costituiva un elemento fondamentale del costume. Era, infatti, stabilito che l’abito non poteva essere indossato qualora non fosse abbellito dalle preziose “tre file di oro a cocole”, dal “pungolo” e dalle “sciacquaglie” (orecchini pendenti). Le prime erano collane a triplo giro lunghe fino al seno, formate da piccole sfere a forma di “cocole” (vocabolo tipicamente dialettale con il quale si designano i frutti delle querce). Lo “spungolo”, invece, era una sorta di spillo che serviva a mantenere legati i capelli al copricapo e, eccezionalmente, poteva essere anche d’argento. La “pacchiana” poteva essere sia da lutto che da nozze. Quella da lutto era caratterizzata da un corpetto e da un copricapo di colore nero, mentre l’altra si contraddistingueva per la presenza della “scolla” (un lungo mantello in seta, bianco o celeste, che si estendeva sulla schiena), dei fiori d’arancio tra i capelli arricciati con la “castagnola” e per l’assenza del copricapo.
    [Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - G.B.M. Cavelletti / dal Calendario "Ieri Oggi"]
    [Correlato nel SITO]

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
    [AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]

  • Beni,  Beni etno-antropologici

    MONTE CHIODO DI BUONALBERGO

    Mario Sorrentino

    Il MONTE CHIODO – Buonalbergo BN – Il primo antemurale per la difesa avanzata dell’ oppidum

    [Ed. 21/09/2009] Nel silenzio di un posto ora deserto, ma una volta pulsante di vita, si possono avvertire, rimanendone catturati, delle presenze, delle realtà quasi sensibili difficili poi da rievocare con parole?
    Questo posto è la cima del Monte Chiodo, sopra Buonalbergo. Occorre però, una volta giunti lassù, chiudere gli occhi e acuire l’udito; e, belati, abbaiare e guaire di cani, muggiti, urla e canti umani (echeggianti suoni che sono sopravvissuti nelle parlate della nostra valle[1] ) arrivano nel vento.
    Si sale verso la cima del monte, a più di ottocento metri, e tra l’erba che riveste i sui fianchi, già da lontano si vedono biancheggiare massi rimasti nei secoli quasi segni inequivocabili, forse sapientemente connessi e allineati perché travalicassero la durata di innumerevoli generazioni e di civiltà diverse.
    La cima del monte e la fascia alta che la circonda è un’area in cui appare evidentissima la tripartizione di cui parlano gli studiosi degli oppida sanniti: i resti dei muri di un fortilizio sulla spianata della vetta; quelli di un santuario a qualche decina di metri più a valle forse ri-dedicato come chiesa al tempo della successiva cristianizzazione; e le numerose concavità disseminate nella fascia del terreno ancora più in basso. Questa fascia abbraccia i tre versanti non scoscesi in cui erano erette le abitazioni degli uomini fatte con materiali scomparsi in quelle concavità perché deperibili. Sembra indubitabile che si tratti di una tripartizione di uso specializzato del suolo caratteristico degli insediamenti non ancora urbani come quelli dell’antico Sannio[2] .
    Il sito di Monte Chiodo presenta come struttura principale una fortificazione di forma più o meno rettangolare (quasi un trapezio) che recinge l’intera vetta con mura di tipo ciclopico (muri a secco di pietre di varie dimensioni e non squadrate con eccessiva arte). L’area della fortificazione è sufficientemente spaziosa per accogliere e chiudere un consistente numero di capi di bestiame, il quale si sa che costituiva la ricchezza di cui i sanniti avevano cura preminente in caso di invasioni o assedi di nemici; o anche per tenerlo unito per le varie esigenze di tosatura, macellazione, mungitura ecc. delle bestie in tempo di pace. Convivevano nel rettangolo con il bestiame anche i pastori e gli armati in caso di assedio, probabilmente in capanne di cui sarebbe difficile trovare reperti. Giudicando dalla grande cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, che chiude il fortilizio nel lato minore in direzione sud-est, sembrerebbe che a Monte Chiodo ci si preoccupasse particolarmente dell’abbeveraggio del bestiame in caso di una prolungata chiusura nel fortilizio.

  • Beni etno-antropologici,  Cultura,  Cultura orale,  Poesia,  Teatro

    Commedie, Sonetti e Madrigali nella Montecalvo del ‘700

    Antonio Stiscia

    Chiassetto Caccese – Teatro
    Portale con le maschere della C. e della Tragedia
    (Asportato dopo il terremoto del 23/11/1980)

    Archivio Fotografico Biblioteca Comunale

    [Ed 00/11/2007] Il 15 Agosto 1748 nella Collegiata di Santa Maria Assunta in Cielo, si tenne una Accademia, vale a dire una manifestazione artistico-letteraria in onore della Vergine, nel giorno della sua Assunzione, con la recita di poesie e canti e la rappresentazione di una commediola sacra, col solo unico fine di magnificare la grandezza di Dio e della sua soavissima Madre.

    Il manoscritto che raccoglie i componimenti letterari, è straordinariamente importante, non solo per il contenuto delle opere, di ottimo livello e grande raffinatezza culturale,ma soprattutto per il suo utilizzo come libretto d’opera,visto che l’Accademia è stata rappresentata più volte, alla presenza della moltitudine dei fedeli e all’interno della stessa Collegiata,per il qual motivo ben si spiega l’utilizzo della lingua volgare e addirittura del dialetto montecalvese.

    Il madrigale, (di cui alla riproduzione dattiloscritta) dedicato alla Vergine Immacolata, di chiara matrice popolare, mantiene la freschezza e la immediatezza tipica delle opere dialettali e occupa un suo non casuale posto nel manoscritto, come nella rappresentazione.

    La particolarità del componimento sta tutta nelle parole,alcune perdute, e nella splendida semplicità di accattivanti versi,che sono propri della tradizione musicalpopolare montecalvese che ha sempre accompagnato,evolvendosi, le vicende umane, politiche,storiche e religiose del paese.

    Un popolo di artisti e di poeti ?

    Raffigurazione in pietra della Maschera da Commedia sec. XVIII Segnalava visivamente il percorso che conduceva a Teatro.
    Corso Umberto-Piazzetta Salines-Chiassetto Caccese

    Ci piace pensare di si,sebbene si debba parlare più di spirito libertario, affiancato da una visione critica e speculativa dell’esistenza,in un periodo storico il ‘700,dove la presenza di indubbie genialità nelle arti e nelle scienze,trova quasi naturale espressione nella spiritualità alta e profonda di San Pompilio Maria Pirrotti.
    Montecalvo fin dal tardo 500 ha avuto un teatro dove si rappresentava la commedia dell’arte e questo la dice lunga sull’atteggiamento avanguardiale del paese.

    La presenza di poeti, filosofi, storici, artisti in genere, legati alla ricca borghesia e nobiltà locale e agli artisti di Napoli e Roma, porterà ad una singolare evoluzione del paese che diventerà, inconsapevolmente, una isola felix della cultura meridionale e che troverà nel 700 la massima esplosione di stile e di partecipazione, anche popolare.
    A significare quanto fin qui detto basti ricordare l’esistenza in Montecalvo del Sacro Collegio d’Arcadia,un movimento letterario straordinario,che favorì la presenza di uomini di cultura, attratti più dalla vita campestre che non da quella cittadina.

    Questa mancata fuga di cervelli,segnò il proliferare di giuristi, teologi,storici e storiografi,poeti e pensatori, attori e musicisti,in una spasmodica e continua ricerca di risposte al vivere,sotto il comprensivo e tutelante mantello di un clero forte e saggio,chiaramente illuminato se non addirittura illuminista.

    La tradizione teatrale è continuata per tutto l’800 e ne sono prova tangibile i drammi a carattere sacro sulla vita di San Francesco e Sant’Antonio,scritti e recitati da Montecalvesi,senza dimenticare il sacro fuoco del Risorgimento.

    Il novecento vede la fioritura del teatro leggero e la nascita,nel ventennio,di compagnie teatrali studentesche,organizzate e dirette da personale docente(Maestro Mario La Vigna…) e su testi di autori locali( Signora Angela Pisani Cavalletti).

    Dopo la II guerra mondiale si riprenderà a far teatro,con compagnie instabili di giovani,nel mentre andrà perduto l’interesse per le arti.

    Da circa 30 anni viviamo di ricordi,annoiati spettatori di un teatrino politico avvilente,perfido avido e scioccante, dove l’ennesima replica si connota di pantomime incomprensibili,costretti,comunque, a pagare un biglietto salato,non avendo,ahimé,nemmeno più il teatro.

    Sic transit gloria mundi.

    MADRIGALE
    Recitata nella Collegiata di Santa Maria Assunta in Cielo Montecalvo 15 Agosto 1748

    (Manoscritto in Archivio Palazzo Stiscia)

    Che s’allumma, si separa
    Allegro ogn’uno, e faccia festa
    Ca la ‘ncoppa l’Ammaculata nosta
    E’ fatta mo Regina da lo figlio,
    e chi la vede assettata conna crona
    certo pe l’allegrezza mi scquacquiglio.
    Non midite ca lo cielo stace bellone
    Persinche la Zitella vede lo sole
    E bui allummaccari, se non potiti tutti fa li lumi
    Dicite schito rosari, a ragiuni.

    * Questo piccolo scritto è dedicato all’indimenticato amico Giuseppe Lo Casale, di cui oltre alla perizia storica, ci manca l’affabile sorriso e la irripetibile geniale  regia di tante Commedie Teatrali.
    [Nativo]

  • Beni,  BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI,  Beni etno-antropologici

    PONTE APPIANO DETTO ANCHE “PONTE ROTTO”

    Alfonso Caccese

    [Ed. 00/00/0000] A dieci miglia romane da Benevento in direzione di Eclano, in località del Cubante nelle vicinanze dell’odierna Apice, secondo quando è segnato nella “ Tabula Peutingenaria”, la via Appia attraversava il Calore su un ponte monumentale, di cui oggi restano le insigni vestigia, per inoltrarsi nella valle dell’Ufita. Questo da testata a testata misurava circa 150 metri ed è a schiena d’asino, con sette piloni di cui tre in acqua e quattro sul terreno. Ogni arco misura 14 metri di luce e 5,5 metri di larghezza. La carreggiata è di circa 4 metri. La struttura del ponte è probabilmente di età Traianea.
    La Via Appia fu la prima strada consolare romana costruita in epoca repubblicana, possiede un fascino tutto particolare. Non a caso Papinio Stazio la definisce Regina viarum.
    La sua realizzazione, avvenuta in diverse fasi, consentì il collegamento fra Roma ed i più importanti centri del Samnium e dell’Apulia: Santa Maria Capua Vetere, Benevento, Eclano, Venosa, Taranto, Brindisi. Sulla Tabula è possibile seguire agevolmente il tracciato fino a Sublupatia (nei pressi di Castellana in Puglia).
    L’inizio della costruzione di questa strada risale a quando il console Appio Claudio Cieco, dopo la I Sannitica, ordinò, nel 312 a.C., che si costruisse una via tra Roma a Capua. Nel 268 Fabio Massimo il temporeggiatore occupò Taranto e quindi la via Appia Antica venne prolungata, prima fino a Venosa e poi Fino a Taranto e Brindisi.. Per secoli il ponte Appiano ha subito la furia distruttrice delle acque del fiume Calore che è stata naturalmente causa, non solo di parziali mutamenti del corso del fiume, ma anche di continui rifacimenti del ponte stesso in diverse epoche.
    Attorno ad uno dei piloni sporgeva, come si apprende da un sopralluogo pubblicato nel 1911 dal Dott. S. Aurigemma, un grosso lastrone di pietra viva collocato orizzontalmente, nella cui faccia superiore apparivano in bei caratteri epigrafici le ultime lettere di varie linee di una iscrizione latina.

    C- L- PRAEFECTO MER A RESCVSA-ET L.CORINTHVS MER ENE-MERITO L. FESTO-L.

    Il titolo, incompleto, è stato conservato per la sola metà destra e gli elementi che esso fornisce non sono tali da potersi pronunciare sul suo carattere e sulla sua destinazione. Si pensa che l’epigrafe provenga dal territorio Beneventano, dove l’esistenza dei mercuriali è accertata da varie iscrizioni (cfr.C.I.L.IX, 1707, 1710). Per la distruzione di Aeclanum, ordinata da Silla dopo la guerra sociale, le popolazioni locali dovettero subire gli espropri e il passaggio della terra ai “coloni”. Lenta fu la ripresa dopo la distruzione, ma nel primo secolo d.C. già si rifacevano case e strade. Quando passarono gruppi di Goti, gli eserciti bizantini di Belisario e di Narsete si rinnovarono le devastazioni e distruzioni. [Nativo]

  • Beni,  Beni etno-antropologici

    Ospedale di S. Caterina

    L’ospedale di S.Caterina sorse nel XIII secolo per volontà degli armigeri che, di ritorno dalla Terra Santa, lo costruirono addossandolo direttamente alla cerchia muraria. L’ospedale fu eretto accanto all’omonima chiesa, non più esistente, fondata alla fine dell’ XI secolo dai Crociati montecalvesi di ritorno dalla Terra Santa. L’esistenza, già a quell’epoca, di un ospedale è stata interpretata come segno del notevole livello raggiunto dalla società di Montecalvo, ove pare che si svolgesse una fiera intitolata anch’essa a S. Caterina e svolta nello stesso luogo. Più tardi sorse anche un altro ospedale, quello dell’Annunziata, ubicato fuori dalle mura. Nel 1518, grazie al conte Sigismondo Carafa, l’Ospedale e la chiesa di S. Caterina furono affidati a Felice da Corsano, religioso locale nonché fondamentale figura nella storia dell’Ordine Agostiniano. Un documento del XVII secolo rende note la quantità e la funzione degli ambienti che componevano l’ospedale, tra cui una stanza adibita a carcere, un’altra con grotta adiacente, due dormitori, otto celle oltre ai locali di servizio. L’Ospedale di S. Caterina è attualmente ricordato attraverso i suoi ruderi che mostrano, tuttavia, ancora gli ingressi: quello principale a sud, le altre entrate ad ovest. Chiaramente percepibile è l’imponente volumetria dell’edificio, in cui sono chiaramente definiti una torre tronco-conica ed un contrafforte.

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
    [AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1993]
    [Credit│Foto - G.B.M. Cavalletti]

  • Beni,  BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI,  Beni etno-antropologici

    Fregi dai motivi ispano-americano sui portali di C. Umberto in Montecalvo Irpino

    Montecalvo Irpino AV – I portali presenti in tutto il centro storico, in particolare in Corso Umberto, riportano nella chiave di volta fregi dai motivi ispano-americani, importati dai soldati spagnoli che in queste zone si stabilirono nei secoli passati. Non è difficile incappare in simboli quali facce di puma, foglie di marjuana, uccelli esotici.

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
    [AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1993]

  • Beni,  Beni etno-antropologici

    LA «SEKOMA» DI MONTECALVO IRPINO

    UN PO’ DI CHIAREZZA SULLA CORRETTA DATAZIONE – SEKOMA
    SEC. XVI
    …………………………………….
    SEKOMA
    III-II SECOLO A.C.
    […]
    ETA’ ELLENISTICA

    Giovanni Bosco Maria Cavalletti

    Sono, le soprascritte indicazioni, la sintesi di un dibattito che tra la primavera del 2010 e quella del 2011 animò la discussione culturale montecalvese.
    In tale periodo, le due distinte ma attigue segnaletiche turistiche campeggiarono contemporaneamente davanti all’ingresso della Casa Comunale di Montecalvo Irpino per indicare l’età dello stesso reperto.
    Una situazione tra il grottesco e il ridicolo che suscitava curiosità, ma anche sconcerto e incredulità.

    Cosa era successo? Molto semplicemente che in una revisione generale della datazione dei principali monumenti del paese e in seguito ad una mia consulenza che datava al XVI secolo il manufatto in questione, l’amministrazione comunale aveva provveduto a rettificarne la precedente cartellonistica che, di contro, lo datava all’epoca ellenistica.

    Sekoma – Targa descrizione manufatto

    A quel punto si sarebbe dovuto rimuovere il vecchio cartello, ma prima di farlo l’amministrazione comunale voleva l’autorevole parere della competente soprintendenza.
    A tale effetto, con nota prot. n. 7180 del 17 agosto 2010 avente per oggetto datazione manufatto denominato «sekoma», l’ente comunale chiedeva ai sostenitori delle contrastanti tesi di relazionare per iscritto in merito alle loro argomentazioni. Acquisite le relazioni, con lo stesso protocollo, veniva formalmente richiesto il parere della Soprintendenza Archeologica per le province di Salerno, Avellino Benevento e Caserta.

    Intanto, in attesa del responso, permanevano entrambe le indicazioni fino a quando, con nota del 04/04/2011, prot. Cl. 28.14.00/51, inviata al Comune di Montecalvo, alla Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici e Etnoantropologici di Salerno e Avellino, nonché all’Ufficio Archeologico di Avellino, la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta, poneva fine al dubbio dando la seguente risposta, regolarmente notificatami dal Comune di Montecalvo con lettera del 07/05/2011, prot. n.3915, avente per oggetto «Richiesta datazione manufatto denominato “Sekoma”»:

  • Beni,  Beni etno-antropologici

    Convento S. Antonio da Padova di Montecalvo Irpino

    Mario Aucelli

    [Edito 00/00/00] La famiglia francescana di Montecalvo Irpino vive all’ombra del convento di S. Antonio all’entrata del paese. Il convento, da sempre residenza dei frati minori , fu costruito intorno al 1600, distrutto molte volte dal terremoto, oggi si presenta come una struttura moderna e funzionale. Annessa al convento e alla chiesa di S.Antonio da Padova, c’è l’Oasi Maria Immacolata. Il convento rappresenta il punto di aggregazione degli amici di S. Antonio per rinfrancarsi spiritualmente e portare a tutti il messaggio cristiano di Pace e Bene. Nel 1222 San Francesco d’Assisi, percorrendo le antiche vie romane, andava pellegrino al Santuario di San Michele Arcangelo sul Gargano. Montecalvo, centro strategico sulla via IGNATIA (al di sopra di Casalbore), lo vide passare non lontano e conservò il ricordo della sua predicazione e del suo insegnamento. Il seme gettato dal poverello di Assisi germogliò subito a Montecalvo grazie alla devozione a uno dei suoi figli più grandi: S. Antonio.

    Nel 1520 Papa Leone X, con la bolla Esponi Nobis Nuper, accondiscese alla richiesta di Sigismondo Carafa, primo conte di Montecalvo, di poter costruire un monastero per i minori riformati di San Francesco.

    Nel 1626 cominciavano i lavori per il convento di Sant’Antonio. In quell’occasione, si racconta, un frate piantò Il tiglio (ormai vecchio di quattro secoli) che si ammira di fronte al monastero.

    Nel 1631 le opere di costruzione del convento furono portate a termine, grazie soprattutto alle donazioni della famiglia dei duchi Pignatelli e alle offerte del popolo. La struttura comprendeva tre bellissimi chiostri, quello d’ingresso affrescato con figure e scene giottesche. La fine dei lavori coincise con la rinascita francescana nel Sannio e nell’Irpinia e con la fondazione della Provincia dei frati minori di Sant’Angelo (FG). Vari terremoti hanno minato l’impianto architettonico originario del convento. In particolare: i sismi del 1688, 1702, 1731, 1930, 1962. Il terremoto del 21 agosto 1962 decretò la fine della struttura seicentesca.